É Tutto a Posto.
Capitolo Quattro.
Verso Sera.
Le mani erano bagnate, sia dall’acqua che dal
sudore. Il suo corpo spurgava sotto forma di liquido salino le tossine in
eccesso che aveva in circolazione nel sangue. Mentre lui stringeva lo sterzo,
Marco stendeva altre due strisce. I tergicristalli fischiavano sul parabrezza tanto
che sembrava che piangessero, emettevano un insolito rumore, poi forse neanche
così insolito, quell’insolito rumore che i tergicristalli fanno quando sono
vecchi e rovinati.
Il sole era sceso sotto la linea frastagliata dei
palazzi all’orizzonte, si riusciva ormai ad intravedere solamente poca luce che
trapassava tra le sagome monolitiche ai bordi dei viali.
Gli alberi erano piegati dal vento che tirava forte,
soffiava come non soffiava da tempo da quelle parti. I lampioni erano accesi, e
con le loro luci gialle e fioche conferivano al vicinato un effetto simile a
quello dato dalle vecchie foto opacizzate e sbiadite dallo scandire degli anni.
Il buio si faceva più intenso tutto intorno a lui.
L’ oscurità prendeva il sopravvento sulla luce e sulla sua vita. Il cielo era
come pece, nero, putrido, dietro quelle nuvole gravide d’acqua e fulmini non
c’era neanche la luna a rischiarare l’atmosfera. Il cielo dava una sensazione
per niente rassicurante. Un “non so che” d’allarmante avvolgeva tutto nell’oscurità.
Pensava a Claudia, ai propri genitori e suo fratello
sapeva che li stava ferendo, ma non voleva rinunciare ai suoi vizi. I vizi ora
come ora facevano parte di sé, del suo modo d’essere e d’agire, non voleva
farne a meno.
Doveva chiamare Claudia ma non prima di aver chiamato
ancora Sonia, non aveva molti soldi nel cellulare e così non voleva correre il
rischio di non poterla sentire, fare quella telefonata era troppo importante
per lui in quel momento, quella prima di tutto, quella prima di ogni cosa, prima
di ogni cosa lo “Spacciamorte”.
Quando fumava cocaina perdeva totalmente il
controllo di se stesso, solo la droga aveva importanza, veniva prima d’ogni
cosa, se c’era la sostanza andava tutto bene, per il resto poteva anche
chiudere un occhio, ma lei doveva assolutamente non mancare.
<Vengo subito, sono quasi da te, se vuoi
scendi.>
Parcheggiava la macchina, vicino casa di lei e
mentre aspettava pisciava un po’ dell’alcol bevuto nelle ore che precedevano
quel momento. Marco gli faceva compagnia, stava fatto anche lui ora. Sentiva
addosso il calore che ti mette l’eroina.
Sonia era lì con loro, saliva in macchina sui sedili
di dietro e ripartivano insieme. Scesero ad un bar là vicino dalle parti di
Boccea, chiacchieravano e facevano due risate.
Claudia nel frattempo aveva chiamato, si era fatta
sentire per dirgli che voleva qualcosa di rilassante dopo una giornata di
studio. Lui comprò un pezzo anche per lei, stavano insieme questa sera. Un po’
di sesso e droga con il suo amore. Anche se la trascurava era pur sempre il suo
amore. Lui la amava tantissimo e lei ricambiava.
Un Campari jin, una grappa per Marco ed un succo di
frutta ACE a Sonia, bevevano, assaporavano i loro drink. A lui continuando a
mandar giù alcool venne il vomito, in fin dei conti il suo stomaco ormai da
tempo era danneggiato. Soffriva per via di una gastrite cronica con ernia
iatale, ed oltre a quella collezionava una altra lunga serie di malori
sparpagliati su tutto il corpo tra cistifellea, vescica, intestino, retto e
denti insieme all’esofago. Non stava bene, quella estate era stato ricoverato e
ciò evidenziava il fatto che il suo fisico stesse risentendo delle azioni che
commetteva. Erano duri i colpi che continuava ad infliggersi, ed inoltre non ne
aveva ancora la certezza, ma anche polmoni e cuore aveva la sensazione che gli
dessero non pochi altri problemi.
In quel bar regnava un odore acre e fastidioso,
l’arredamento era fatiscente, anzi cadeva a pezzi, però in compenso il
proprietario era molto simpatico e lui apprezzava la gente che compiva il
proprio lavoro col sorriso in faccia. Sosteneva che ogni mestiere se fatto con
armonia poteva essere dignitoso.
20:21 era arrivata l’ora di andare a mangiare
qualcosa. E così richiamò Claudia convincendola ad andare con loro, offriva la
cena ad entrambi, a lei e a Marco.
Claudia non amava molto stare con lui ed i suoi
amici a tavola, sosteneva che insieme diventassero insopportabili. Ma quella
volta fece un’eccezione, anche perché si fece promettere che subito dopo il
pasto sarebbero andati da lei. Voleva rimanere da sola con il suo uomo. Un po’
di relax meritato e giusto. Quindi mentre si cercava di capire al telefono con
Claudia verso quale ristorante, pizzeria o trattoria sarebbero andati, Sonia
invece tornò dalle parti di casa sua, lei doveva vedersi ancora con molta altra
gente e così andò via da sola, incamminandosi verso la metro più vicina.
Continuava in questo modo e con questo ritmo
incalzante la piccola e tragica odissea urbana che vi racconto e di cui devo
ancora raccontare molte cose. La sua corsa di tutti i giorni verso un rapido e
sempre più inevitabile epilogo.
In questi momenti o circostanze, arrivato a dei
livelli molto alti di astrazione dalla realtà e dalle cose, non pensava più a
niente, rideva, si divertiva, la compagnia lo distraeva.
Le cose che vedeva erano la versione deforme di ciò
che la sua mente soggiogata ai vizi gli offriva. Un mondo in cui poteva fare
tutto, un cosmo di cui lui ne era il centro, si sentiva importante si sentiva
tanto forte da condizionare e gestire tutti gli eventi.
I debiti erano ancora lì, non si erano cancellati ma
era come se lo fossero almeno finchè l’effetto di ciò che aveva assunto durava,
andava tutto bene, e l’effetto sarebbe durato ancora per molto e molto ancora.
Avrebbe visto l’alba e avrebbe sentito lo scoppio del cannone del Gianicolo a
mezzogiorno, d’altronde era così tutte le volte. Non c’erano dubbi.
Claudia li aveva raggiunti, sedevano a un tavolino
di quelli piccoli e tondi, all’interno di un ristorante molto carino e non
troppo costoso dalle parti del centro verso piazza Farnese.
Mangiavano, parlavano e soprattutto scherzavano,
scherzavano su tutto, scherzavano troppo, nessuno di loro era cosciente di cosa
li avrebbe investiti in un futuro molto prossimo e quindi nella loro
spensieratezza aiutata dall’alcol si divertivano insieme, ma per quanto lo
avrebbero potuto fare ancora?
Il tempo passava, passava velocemente e così facendo
nel frattempo erano arrivati ai caffè con grappa, dopo ben quattro bottiglie di
vino in tre, anzi diciamo pure in due, Claudia non beveva troppo. Usciti dal
locale continuavano a parlare, parlavano ad alta voce, le loro risa invadevano
ogni vicolo in cui passavano, erano risa forti, risa inconsapevoli, le risa di
chi non capisce e di chi non vuol capire.
Claudia, che non rideva poi tanto come loro, pensava
un po’ di più e suoi pensieri di sicuro non erano felici. Quello spettacolo la
faceva pensare,
nessuno lo conosceva bene come lei, tutti vedevano
sempre quella persona sorridente e pronta a far ridere in ogni momento, ma poi
chi rimaneva da sola con lui quando finivano i momenti delle apparenze era lei.
In quegli istanti il suo viso e i suoi occhi di
mischiavano ad un’espressione di domanda, d’inquietudine e paura, non sapeva
cosa sarebbe successo. Si chiedeva e domandava a se stessa ma senza risultato, tanto
che in fine anche lei preferiva non pensare eccessivamente, perché tutte le
conclusioni a cui arrivava non erano gradevoli e magari alla fine tutto si
sarebbe messo a posto.
Camminavano verso la macchina parcheggiata,
respirando aria fresca dopo il calore accumulato nella gremita sala del
ristorante, il rumore dei passi era gradevole e rimbombava nella testa di lui ciondolante
e ipnotizzandolo, mentre l’alcol impersonificato nel suo diavolo tentatore ordinava
solamente una cosa in quel momento, il suo cervello era spinto al margine, al
limite e superato anche quello l’unica parola che gli veniva in mente era la
sola ed unica che conoscesse in quegli istanti di alcolica follia, “Crack”.
La sua voglia di fumare ora era incontenibile.
Claudia sarebbe dovuta sottostare al suo forcing mentale estenuante, sino al
momento in cui avrebbe accettato. Seppur non la facesse impazzire, aveva deciso
che avrebbe fumato anche lei per questa volta, tanto aveva l’eroina per
smorzare e poi in quello stato se non avesse deciso di fumare, lui non sarebbe
mai andato a casa sua, perché a lui ora importava solo quello e quella era la
sua priorità assoluta.
Guidava verso casa di lei con molta fretta, aveva
bisogno e correva per la strada davanti a sé, ma prima di arrivare a
destinazione doveva lasciare l’amico da qualche parte.
Si accostò al marciapiede senza neanche mettere la
freccia, l’automobile dietro a lui non mancò di farglielo notare con un lungo
lamento del clacson, Claudia storse la bocca come faceva lei di solito in questi
frangenti. Lui si girò di dietro la guardò e disse <Non ti preoccupare, è
tutto a posto, ahhh… ahh… ahahhahhh!!!> rideva ancora, rideva sempre e
rideva a sproposito.
Marco scendeva dall’auto e salutava l’amico con la
ragazza, lo salutava anche se sapeva perfettamente che l’avrebbe rivisto dopo
poche ore. Claudia però doveva credere che non si sarebbero incontrati di nuovo.
Così per rendere il tutto più credibile Marco si fece lasciare qualche botta di
cocaina a simboleggiare il fatto che dopo non si sarebbero potuti rivedere.
Marco era furbo e drogato come l’amico. L’altro quindi senza problemi non
lasciò il compare a mani vuote, gli passò la bustina si scambiarono uno sguardo
di intesa e si salutarono di nuovo. Marco si dirigeva verso Trastevere, andava a
beccare un po’ di gente in giro, in fin dei conti la notte per loro era ancora
giovane, anzi giovanissima.
Gli altri due ora salivano i tre piani di scale che
separavano il portone del palazzo dall’ingresso dell’appartamento di Claudia.
Le mani con lo smalto trasparente della ragazza cercavano dentro la sua enorme
borsa le chiavi di casa. Ogni volta ne passava di tempo prima che venissero
trovate, ma lui sapeva aspettare. Sapeva aspettare perché di lei amava tutto,
soprattutto amava vederla compiere anche i gesti più normali, erano le sue
gestualità, i suoi modi di fare anche le cose più banali che lo facevano
impazzire, ogni piccolo movimento, ogni espressione legata anche a piccoli
gesti quotidiani per lui erano motivo di gioia e di benessere.
Dopo la lunga
e attenta ricerca dell’oggetto metallico, in fine vedevano la chiave più lunga
del mazzo infilarsi vicino la maniglia e con tre mandate aprire la porta. Tre
mandate. Tre mandate di chiave nella toppa stavano a significare che nell’appartamento
non c’era nessuno, ossia che era vuoto, i genitori di Claudia erano usciti e
ancora dovevano tornare.
Così potevano iniziare immediatamente i preparativi
per fumare cocaina. In primis ci si occupava dell’assemblaggio e costruzione
della pipa. Di norma la pipa in questione era una semplice bottiglietta d’acqua
da mezzo litro vuota che veniva riempita di nuovo per poco più di metà, tanto
da poter creare una camera d’aria non eccessiva. Se la camera d’aria fosse
stata troppo ampia al momento di fumarla non si sarebbe riuscito a svuotarla
del tutto dal fumo e quindi il tiro in sé sarebbe andato sprecato. La bottiglia
veniva perforata da una sigaretta all’altezza della camera d’aria e non sotto
il filo dell’acqua visto che non si voleva innaffiare il pavimento. Questo procedimento
serviva ad ottenere il buco dove si
sarebbe infilata una penna a sfera “Bic” spezzata per creare la cannuccia con
il quale si sarebbe aspirato il candido fumo bianco. A seguire il collo della
bottiglia veniva coperto con della carta stagnola che bucata da uno
stuzzicadenti sarebbe diventata il braciere dove poggiare la roccia di cocaina,
“Crack”.
Dopo ciò la pipa era pronta. Ovviamente adesso
andava cotta la sostanza che a discrezione del cuoco poteva essere cucinata con
ammoniaca o con acqua e bicarbonato.
Lui preferiva di gran lunga acqua e bicarbonato. La
cocaina messa sul cucchiaio veniva ricoperta da un leggero strato di
bicarbonato di sodio, poi il tutto veniva bagnato con gocce d’acqua. Sotto il
cucchiaio si accendeva la fiamma dell’accendino. L’acqua iniziava a riempirsi
di tante bollicine, la cocaina ribolliva insieme al bicarbonato. Da polvere
diventava goccia. Quella goccia oleosa di colore giallo testimoniava il fatto
di quanto la droga in questione fosse buona. Le sue mani già tremavano, il solo
guardare quella scena gli faceva stringere lo stomaco.
Lo stomaco e la pancia gli si gonfiavano d’aria, e
il suo petto veniva invaso da una sensazione d’ansia. Voleva assaporarla, voleva
sentire i suoi polmoni gonfiarsi, voleva sentire quel sapore, il sapore di
plastica che ti lascia quella sostanza sul palato e sulle labbra. Claudia lo
osservava ne aveva voglia anche lei, ma in
realtà era turbata nel vederlo così. Non era più lui, il suo sguardo
brillava di una strana luce, era folle, come impazzito e in balia di qualcosa
che non controllava, sembrava che vibrasse sotto la luce della lampada da
tavolo sulla sua scrivania tanto i nervi erano tesi.
Claudia iniziava a poggiare la cenere sulla
stagnola, mentre lui faceva asciugare quella parte di “cotta” già tolta dal
cucchiaio sopra un foglio di scottex. L’aveva estratta dal cucchiaio aiutandosi
con un coltello da cucina, di quelli con la punta tonda.
Era irrigidito già adesso, tremava, sudava e
ansimava prima ancora di fumarla. Fuori di sé, era totalmente fuori di sé, la
sua ragazza gli parlava, me lui era come se non sentisse, aveva già la voce
strozzata e quindi non rispondeva annuiva solamente con dei frenetici movimenti
della testa.
Ora la sua bocca poggiava le labbra screpolate e
secche sulla cannuccia, Claudia sentì lo schioccare della accendino e quando si
girò, vide una roccia di proporzioni enormi sciogliersi sotto il calore della
fiamma.
Tirava, tirava forte e a pieni polmoni, più aspirava
e più i suoi occhi si spalancavano, il petto era gonfio ed arcuato verso
l’alto. La bocca si staccò. Tratteneva in sé il suo male più grande. Tratteneva
in sé un qualcosa che lo appagava solo in quell’istante, appena avesse espulso
la nuvola tossica dal suo interno sarebbe iniziata la sua pena.
L’odore fortissimo della bottiglia calda e fumante
invadeva tutta la stanza. Le sue mani irrigidite come fossero di pietra
stringevano e non lasciavano più i braccioli della sedia su cui sedeva. Dietro
le orecchie per la nuca e su tutto il collo la sua pelle iniziò ad accapponarsi
e tirarsi su. La sua mascella tremava mentre sputava il suo fumo, le sue
orecchie fischiavano. Non sentiva più niente, l’unico rumore che percepiva era
simile a quello di uno scacciapensieri siciliano.
<Tutto a posto?>. Claudia chiese.
Non rispondeva e non girava neppure la testa.
<Ahò! Tutto bene?>.
Il cuore di lui per un attimo saltò, fu quasi come
se si fosse bloccato per una frazione di secondo e poi ripartito
immediatamente, lui si girò la guardò e mosse la testa su e giù. Da quel
momento non disse più niente per parecchio tempo.
Claudia caricava il suo tiro sulla stagnola e
pensava chi glielo avesse fatto fare. Non poteva guardarlo in quelle
condizioni, era orribile per lei, insostenibile. Lui si girava e si guardava
intorno, cercava di ascoltare cose che non c’erano e che se pure ci fossero
state non era assolutamente in grado di sentire, si convinceva di percepire
rumori provenienti da dietro la porta della camera chiusa. Erano tutte
allucinazioni che lo impanicavano ancor più di quanto non avesse fatto quel
tiro in se stesso. Paranoia, ansia e terrore erano queste le sensazioni che lo
attanagliavano e che lo costringevano solamente ad un’unica azione, quella di
fumare ancora.
Non aveva alternativa, l’unica cosa che riusciva a
fare era quella di fumare un tiro dietro l’altro e quello faceva.
Ormai avevano iniziato e finchè non fosse finita la
cocaina almeno quella già cotta e Claudia non avesse impedito di cuocerne
dell’altra quello si sarebbe fatto per le prossime ore.
Un tiro dopo l’altro uno alla volta, come in una
catena di montaggio i loro gesti erano alienati e si ripetevano in sequenza.
Solamente ogni tanto la monotonia degli eventi veniva interrotta da Claudia che
metteva botte d’eroina per allentare un po’ la tensione.
Fortunatamente l’eroina, riuscì a farlo sbloccare da
quello che stava facendo, gli aveva dato quel senso di appagamento che la
“bottiglia” non ti da mai.
Era riuscito a sbloccarsi, stava tornando normale, aveva
smesso di essere quella macchina infernale capace di svolgere solamente un
compito.
Piano, piano anche i suoi movimenti perdevano quella
rigidezza acquisita in precedenza, si scioglieva e anche l’atmosfera in quella
stanza si stava rilassando.
Vedevano un film e facevano l’amore, facevano
l’amore e vedevano un film, così gli piaceva, di sdraiarsi sul letto sotto le
coperte e di stare abbracciati insieme.
Di tempo ne passò, si erano fatte quasi le tre di
notte e lui doveva andare via.
Aveva tolto la suoneria al cellulare, perché quando
fumava non voleva parlare con nessuno, anzi non ci riusciva proprio, e adesso
sapeva che doveva confrontarsi con quel display. Il display gli avrebbe detto
chi lo aveva cercato, adesso che era tornato cosciente pensava a chi avrebbe
dovuto vedere, chi avrebbe dovuto vedere e che non aveva visto.
Forse questa era la parte della sua giornata che
meno gli piaceva, l’attimo in cui riacquistava le sue capacità mentali e doveva
un minimo ragionare sul da farsi e soprattutto sul fatto.
Cosa era successo? Cos’era successo? Era successo
quello che succedeva ormai da molto tempo e che soprattutto succedeva da
troppo. Poi la serata non era ancora finita, doveva uscire di nuovo e il
tornare in giro cosa avrebbe comportato? Non era difficile da immaginarlo.
<Clà… >.
<Eh?>.
<Io devo annà>.
<Lo sò>.
<Bèh… Se sentimo domani… >.
<Ok>.
<C’hai sonno piccola?>.
<E grazie che c’ho sonno!>.
<Bella che sei… >.
<Che fai domani?>.
<Boh?... Perché?>.
<Te va de venimme a prenne a pranzo?>.
<Pranzo?>.
<Eh, sì a pranzo!>.
<Clà, lo sai che dormo>.
<Embè… Figurate se te arzi… Non sia mai… >.
<Dai che devo annà>.
<’Notte>.
<Mò che te sei arrabbiata?>.
<No ‘n me so arrabbiata… >.
<C’hai sto tono… >.
<Che tono c’ho?>.
<Niente. Dai allora ciao>.
<Ciao>.
Si baciarono, lui le accarezzò il viso e chiuse la
porta della camera. In silenzio arrivò alla porta di casa, nel buio senza
accendere la luce la aprì e la richiuse dolcemente alle sue spalle.
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