É Tutto a Posto.

É Tutto a Posto.

Capitolo Uno.



" Un Telefono che Squilla."

Driin. Drinn. Drrin. Il suo vecchio apparecchio telefonico SIP non faceva altro che squillare da tutto il mattino, finchè la sua mano non smise di stringere forte il cuscino ed acchiappò la cornetta. Era una di quelle vecchie cornette grigie, grigia, di plastica grigia lucida ma ormai opacizzata dal tempo e dall’usura. Il solo guardarla dava l’impressione che ne avesse sentite così tante di quelle storie e voci così pazzesche che fosse stanca anche lei, quasi esausta.
<Pronto?>. Aveva paura a rispondere non era un gran bel periodo, d’altro canto quando si devono soldi a persone che non ti sono amiche, ma soprattutto quando devi a persone soldi che non hai, il rispondere al telefono potrebbe metterti nella condizione di dover affrontare domande di cui neanche tu conosci la risposta.
<Chi è ?>. Chiedeva e dall’altro lato risposero, la risposta non fu gradita, era chi non sperava che fosse.<Si, dimme … no ieri ‘n so sceso giù … pioveva sò rimasto a casa … ancora non ho sentito nessuno, sò passati solo quattro giorni … che te devo dì … vedrò de damme ‘na mossa>.
C’erano stati non pochi problemi i giorni prima, il posto di blocco delle guardie e il lancio a seguire, un lancio costoso e doloroso. Nell’ultima settimana era la terza volta che veniva fermato e perquisito, il tutto lasciava da pensare. Quel lancio equivaleva a mezz’etto di cocaina, ossia “Merce”. Duemilacinquecento euro buttati via, un prezzo ragionevole per anni di carcere scampanati. <Te che me racconti? Chi ce stava giù ieri sera? … Ma poi hai fatto tutto te? Dici che sta vorta je la famo a falla quà cosa? … ah … se, se avoja, ho capito, eddaje, allora a posto, rimanemo così>. Riposò lo strumento di tortura. Silenzio. Poi di nuovo sonno.
12:03 era questo che comunicava il display della sveglia sul suo comodino.
13:01 il tempo passava, ma lui dormiva, quando aveva preoccupazioni che gravavano sui suoi pensieri era quasi come se il suo cervello preferisse non pensare, quindi rimaneva spento più tempo possibile.
Di fuori il tempo non era dei migliori tirava vento e faceva freddo, l’inverno era arrivato e Roma l’aveva accolto come tutti gli anni. Le foglie cadute si ammucchiavano ai bordi delle strade e persone con sciarpe e guanti le affollavano frenetiche travolte dalle loro vite in continuo movimento.
Sognava, sognava di stare al mare e di spendere soldi, tanti soldi, soldi che non aveva, ma che voleva a tutti i costi. Il contante per lui non era mai stato un problema, ma era più di un anno e mezzo che gli girava tutto male e non solo gli affari. Claudia cacava una cifra il cazzo, sembrava quasi che avesse il ciclo ininterrotto per tutto l’anno, il loro rapporto si stava guastando. Ma non era colpa di lei; lui non si rendeva più bene conto in che cazzo di faccende si trovava sempre più spesso impelagato. I suoi continui impicci, movimenti, traffici chiamateli come volete lo turbavano fortemente, a tal punto da renderlo insopportabile persino per lei, fedele confidente e amica. Lei per lui era tutto e la stava allontanando senza guardare in faccia la realtà. Fumava ogni notte e faceva giorno in ogni circostanza sia da solo che con gli altri. Il crack lo stava intaccando nel profondo, ma insisteva nel suo danneggimento fisico e mentale. Era dimagrito molto a tal punto che anche sua madre non faceva altro che ripeterglielo, odiava vedersi così magro ma finito il pasto serale come sempre riiniziava il rito di morte precoce.




Driin. Drrin. Drinn … Drrin. Drinn. Driin. 14:56 e di nuovo la cornetta gli parlava all’orecchio.<Pronto? Ah bello! … Che dici piccolo? … Io tutto a posto … più o meno … ma davero! … alla fine te la sei scopata! … ebbravo … te si che sei bravo … sì sto ancora a dormì … esco più tardi … se è vengo giù io, non te preoccupà che passo sicuro … ci sto, pe me va bene, allora se sentimo dopo, anzi se vedemo … si, si passo de sicuro ‘n te sto a dì ‘na cazzata ce vengo pe davero.> La mano si allontanò ancora una volta dall’oggetto parlante e si rimise sotto le coperte.
A quel punto oramai era sveglio, non avrebbe ripreso sonno, con gli occhi aperti guardava il soffitto, nutriva un certo languorino e il suo stomaco voleva essere riempito. Il piumone si separò dalla sua persona lasciandolo in balia dei gelidi flutti d’aria fredda. Sputava sangue come tutte le mattine, le gengive della sua martoriata bocca erano gonfie e rosse e gridavano vendetta. Lo spazzolino nel bicchiere al bagno aveva un colorito che ricordava quello di un assorbente usato, ossia le setole di quest’ultimo davano sul marroncino color sangue raggrumato.
Non aveva ancora chiamato Claudia e sapeva di doverlo fare gli aveva promesso che l’avrebbe portata all’università ed era in ritardo.
Masticava un pezzo di pane col salame per tappare quel buco che aveva al posto dello stomaco e rifletteva, su che rifletteva?
Di cose da analizzare ce ne erano tante, lo faceva mangiando, mangiava e pensava a come. Come che? Come si poteva risolvere tutto quel bordello che era la sua vita in quei giorni.
<Io devo fa na cifra de sordi in poco tempo>. Questo pensava, nella sua testa c’era questo pensiero.
Driin, Drinn. Drrin! <Piccola! Era proprio a te che pensavo! … No, non sto a dormì … sò svejo da na cifra>. Bugie. Bugie. Bugie. <Sò già vestito, stavo pe uscì pe venitte a prenne … non era oggi che te dovevo portà all’uni?>. Mentre parlava si finiva di vestire così che fosse pronto per uscire.<Dai non me trattenè troppo che se becco r traffico poi te faccio fà tardi e poi te ‘ncazzi, sto pe arrivà! Byez!>.
Era un altro giorno, ancora un altro, ma non era un giorno nuovo, era un giorno come uno dei tanti di quei giorni, tutto procedeva sempre più velocemente verso quella che poi sarebbe stata la fine, quale fine? La fine della storia, perché in fin dei conti anche questa è una storia e come tutte le altre storie ha un inizio ed una fine bella o brutta che sia. Messa la giacca addosso e prese le chiavi della macchina, si poteva uscire. Così filavano gli eventi, andava tutto nel verso giusto? Boh! Di sicuro andava, di questo ne eravamo certi, poi se il verso era giusto era tutto da vedere.
Lui guardò la finestra e vide di fuori i bambini che gridavano e giocavano a palla, gli venne in mente quando non aveva pensieri e giocava con suo fratello, ma era inutile starsi a scervellare su questo ora era il momento di andare a comprare qualcosa da pipparsi, d’altro canto c’era un tempo per tutto.
Il tempo dei giochi, delle merende e dei cartoni animati che lui amava così tanto aveva smesso di esistere, ora la sua realtà era costellata di altre cose che ruotavano intorno a lui ad una velocità incredibile, un vortice che lo trascinava via con sé, verso qualcosa che nessuno era in grado di fermare.
<E’ tutto a posto!> pensava <E’ tutto a posto!> ripeteva <E’ tutto a posto?, eh sì! Tutto a posto.> Scendeva le scale di corsa verso la sua auto, la sua Golf che lo aspettava fuori dal cortile. Quel giorno la borgata sembrava stranamente più tranquilla, come se fosse sonnolenta, addormentata in un piacevole sonno, tepore che le conferiva un’aria più rilassante per chiunque, ma a lui invece dava una sensazione totalmente differente, come si dice di “quiete prima della tempesta”.
Le chiavi nella toppa fece ruotare, il motore rombava ed iniziava a scaldarsi, i pneumatici girarono e la macchina s’avvio verso la strada.
15:12 ora era il cellulare ancora caldo per la batteria appena staccata dall’alimentatore a squillare <Ahò a Clà! Sì, che so ‘scito … e dai non rompe r cazzo, te prego, sto pe arivà … me sbrigo, me sbrigo … eccomi sto venendo … mamma mia! Non poi così però! Ahò!!! E che cazzo! T’ho detto che sto arrivando … Ciaoooo!!!>. Attaccò e pensava a quanto poteva rompergli le palle se voleva, ma lei era preoccupata, lo conosceva bene, fin troppo per non esserlo, e vedeva quanto stesse cambiando.
Forse doveva dargli uno scossone in qualche modo, rifletteva su ciò, ma poi preferiva dargli ancora tempo per capire, magari ci arrivava anche da solo alla conclusione giusta. La conclusione giusta, chissà qual’era, di sicuro non quella a cui si stava avvicinando così in fretta, la sua discesa era senza sosta, l’oblio lo traeva verso si sé, e lui gli correva in contro con il suo Golf a tutta callara.
Finalmente il dito sul citofono. La voce di lei che gridava “Scendo!”. Lo sportello della macchina che si richiudeva energicamente. Le mani di nuovo sul volante. La radio che mandava il solito pop rock del cazzo e lui che continuava a sperare in quella che doveva essere la svolta. La svolta che gli avrebbe dovuto cambiare la vita.
Rincorreva questa svolta oramai da molto tempo con la testa e i suoi pensieri la vedevano possibile, tangibile lì davanti a sé. Aspettare, questo doveva fare e questo faceva, non faceva altro. Il suo era uno “Stand by” continuo, costante e incessante ormai da molto tempo.
<Bellezza!>.
<Buona sera!>.
<Che dici?>.
<Stanca morta, è tutto il giorno che sto sui libri>.
<Povera! Mò te tocca pure ‘sta lezione.>
<Mica sò come te che ‘n ce vai mai all’università!>
<Io li do da non frequentante l’esami, lo sai!>
<Ho visto quanti ne stai a dà! ‘Na cifra proprio!>
<Ahò! Ma che voj? Pensa pè’ te, me so n’attimo rallentato>.
<Sò quasi dù anni che te sei rallentato! Io n’artro po’ finisco. Quann’è che te sveji?>.
<Un giorno, un giorno la “Svolta” arriverà!>.
<Me sà che stamo freschi ad aspettà ‘sta svorta! Guarda che ‘n cade niente dar cielo!>
<Damme retta che ariva, ariva sò sicuro!>.
<Senti cammina va, che sennò famo tardi. Vedi de sbrigatte>.
<Quanto rompi tutte le volte!>.
<Io eh?>. Lo guardò negli occhi e fece quella sua smorfia con la bocca, quel gesto che lo faceva impazzire. Gli mise una mano lì, e sorrise lei non ricambiò, la spostò e disse <Camminà, và che è mejo!>.
La macchina si allontanava dal portone. Iniziava a piovere. Poco a poco l’asfalto si faceva più scivoloso, si rischiava di cadere. Gli ombrelli aumentavano numerosi sui marciapiedi come le automobili lungo le vie della capitale. Il traffico era veramente insopportabile, ma lui almeno sin ora non aveva fretta, tutto era a posto.
Iniziava a sentire che l’effetto dell’eroina stava passando, doveva darsi una botta sennò si sarebbe sentito non tanto bene, questo lo sapeva. Premette il piede sull’acceleratore, doveva sbrigarsi a lasciare lei e a chiamare lo “Spacciamorte” al più presto. Era ora di rilassarsi e di credere che sarebbe tutto finito prima o poi. Tutto finito.




Capitolo Due.

Piove Sempre sul Bagnato.


Ormai pioveva proprio di brutto, gli piaceva godersi la pioggia in macchina, ascoltare il suono delle gocce infrangersi sul parabrezza gli metteva addosso un senso di sublime. Il rapporto con quel’acqua che cadeva gli faceva pensare a quanto siamo insignificanti di fronte al cosmo intero. Piccoli, tanti, troppi per prenderci in considerazione sul serio, non siamo nulla pensava tra sé e sé. Questa idea lo portava a fare considerazioni pericolose, gli faceva vedere il tutto come se fosse privo di significato e di importanza. La nostra realtà come qualcosa di totalmente effimero, un qualcosa di passaggio, le sue considerazioni erano del tutto pessimistiche. Quel suo pessimismo gli poggiava davanti agli occhi un velo che non gli faceva poi vedere le cose che contano veramente, i suoi interessi, il suo amore e la sua famiglia erano come offuscati, visti da lontano, un qualcosa di sbiadito che dava parvenza di benessere. Il benessere che lui non riteneva necessario e che per gli altri era tutto quello di cui si ha bisogno.
Pioveva, pioveva di fuori e pioveva sulla sua testa. La pioggia lo aiutava a pensare, doveva pensare, ma ogni tipo di pensiero era doloroso, l’università che andava a rotoli, i soldi che aveva perso, i soldi che spendeva per soddisfare i suoi vizi, che poi non erano mai soddisfatti, Claudia che rompeva, tutto gli andava male, ma in cuor suo era tutto a posto, sarebbe passato anche questo periodo. Nel suo cervello si accavallavano pensieri ed ipotesi con le quali avrebbe potuto fare soldi, “Svoltare!”. Ognuna di queste, di queste idee ed azioni ne scatenavano altre di conseguenza che lo portavano sempre di più a distaccarsi da quelli che poi erano i suoi veri interessi.
Il meccanismo che aveva messo in moto era prepotente, lo costringeva ad azioni forzate e concatenate tra loro.
Stringeva i denti e continuava, insisteva nel suo declino e delirio, in cui vedeva ancora una parvenza di luce, chissà data da cosa. Iniziavano a venirgli i brividi lungo la schiena, la pelle gli si accapponava addosso. Il sudore portava con sé l’idea del fatto che era proprio ora di darsi una mossa, chiamare, doveva fare la chiamata che lo avrebbe fatto rilassare almeno per un po’ d’ore.
Una combinazione di numeri su una tastiera del cellulare, una voce dall’altro lato che acconsentisse a passare e sarebbero finiti i problemi, anche se per poco, sarebbero finiti.
Lasciava Claudia all’università e poteva dirigersi verso l’illusione di quel piacere che tanto voleva, lo desiderava. Il suo piacere preferito era lei. La cosa che più lo faceva star bene si chiamava Eroina, lo cullava e gli dava la forza di reagire e di credere che “tutto era a posto”.
<Clà, allora se sentimo più tardi, famme ‘no squillo quanno hai fatto, ok?>
<Va bene, ti chiamo dopo. Fa il bravo non fare cazzate, che non se ne può più. Ti voglio bene.>
<Ciao Clà. Ti voglio bene anch’io lo sai questo no?>
<A più tardi allora. Ciao caro>. Claudia era stata portata all’università e ora si allontanava. Era di nuovo solo. Ultimamente era molto più il tempo che passava da solo che quello in compagnia. Non gli interessava assolutamente. Meglio solo che male accompagnato. Ma negli ultimi tempi la sua compagnia, la compagnia di se medesimo non era affatto buona. La mano scivolò sul suo Nokia, a seguire venne composto il numero che gli serviva e partì la telefonata che doveva fare.
Tuuu … Tuuu … ascoltava con ansia il telefono libero, poi una voce di donna gli rispose. Lui fece un sospiro di sollievo. Si sentiva già meglio.
Lei lo rassicurò dicendogli che potevano vedersi entro breve. Lei aveva bisogno di un pacchetto di Philip Morris One sigarette per lui inconcepibili ma che non rifiutò di andargli a comprare.
<Un pacchetto di Marlboro rosse morbide, Philip Morris One, un Bic grosso e questi.> Prese due Chupa Chups alla Coca Cola dal cestino sul bancone e pensò a quando c’era la lira. Quelli sì che erano bei tempi, il valore delle cose era molto più basso e lui era molto più ricco di adesso.
Uscito dal bar si avvicinava alla macchina ed un cane gli stava facendo pipì su una ruota. Sorrise. Amava i cani poi i Boxer li adorava e quello che faceva il bisogno sulla sua vettura apparteneva alla razza. Grande, slanciato e tigrato.
<Gordon! Ma che fai! Lo scusi, guardi non sò come scusarmi>. Disse la padrona.
Dopo un sorriso smagliante lui rispose. <Niente. Non fa niente. Si figuri, magari porta pure bene.>
Aprì lo sportello, spingendo il tasto sulla sua chiave ed entrò. Accese una sigaretta, cintura di sicurezza allacciata e via. Partiva, verso la sua “Amicanemica”.
Arrivato al cancello parlò di nuovo al telefono.<Sto qui fori, che fai scendi o salgo?> chiedeva.
<Scendo io, che così porto giù anche Misha>.
<Vabbene sto qui. Cià>.
La spacciatrice anche aveva un cane, un pastore maremmano immenso e cattivo. Dallo specchietto lui lo vide che usciva dal cancello, a seguire la padrona con il suo regalo in mano. Felicità. Nei suoi occhi ora c’era una scintilla di vera felicità, la si poteva vedere da lontano. I suoi drammi almeno per un po’ di tempo si stavano allontanando per essere sostituiti dalla gioia chimica da lui tanto agogniata.
<Tutto bene?>
<Sì te? Con Claudia come procede?>
<Tiramo avanti. Semo stati mejo, su questo n ce piove.>
<Tieni, sbrigati. Toglilo di mezzo. Non ti far vedere dai vicini, che guardano sempre.>
<Tranquilla. Già fatto. Che stai a fà stasera?>
<Sto a casa, niente di eccezionale.>
<Capito … senti io vado. Che me devo sbrigà. Se sentimo sti giorni.>
<Ciao bello>.
<Ciao, stamme bene. ‘N te sciupà.> Dati i cinquanta euro alla ragazza rialzava il finestrino ricco di goccioline d’acqua piovana.
Ora poteva anche darsi la botta che lo avrebbe rimesso in carreggiata per la serata. Il posto era sempre il solito, una vietta lì vicino lontana da occhi indiscreti. Aprì la sua busta, poggiò la polvere bianca su un cd che aveva in macchina, schede alla mano, banconota arrotolata. La guardava e sorrideva, il pippotto si infilò nella narice di sinistra. Shhh! … inalava. Già sentiva i suoi muscoli distendersi. La sua pupilla si rimpicciolì vistosamente. Stava chiaramente fatto. Era quello che voleva. Accese di nuovo una Marlboro. La assaporava, era gustosa ora che stava allucinato in quella maniera. I suoi occhi si chiudevano. Un dolce sonno lo avvolse. Erano solamente le cinque del pomeriggio, aveva di fronte a sé tutta un’altra giornata della sua solita routine.
<Come posso rimediare soldi adesso?> Si angustiava per porre una risposta al quesito. Doveva farsi abbuffare da qualcuno qualcosa da vendere. Cosa?
Cocaina? Fumo? Erba? Ketamina? Quale tra le quattro sostanze? Non aveva importanza anche tutte e quattro insieme. Non c’era problema per lui, bastava che si vedessero soldi, e soldi facili sarebbero stati.
In tutto ciò continuava a scendere la pioggia sulla città di Romolo e Remo, la capitale d’Italia. Amava la sua città, quel giorno il cielo su Roma era torbido e nero, non trapassava neanche un raggio di sole. Dava come l’impressione che non ci sarebbe stato un giorno nuovo. Era una di quelle sere senza futuro. La speranza di una vita migliore era così vana, ma lui non ci faceva caso. Le cose erano così da così tanto tempo che secondo lui, sarebbe potuto continuare in questo modo per tanto altro tempo ancora. Ma le cose stavano cambiando, e lui non voleva aprire gli occhi, l’eroina li teneva ben chiusi. Questo era certo. Indubbiamente quel buio gli faceva piacere, lo rilassava, l’importante quindi era non aprire gli occhi, e lui non l’avrebbe fatto.
Scese dalla macchina, su di lui cadeva acqua, ma non si sentiva pulito, al contrario quel’acqua lo faceva sentire sporco e bagnato. Si sentiva fradicio, umido, intriso da qualcosa di lercio. E più pioveva e più la sensazione aumentava intensità. La sua testa girava come gli girava il mondo tutto intorno. Con le braccia allargate e i palmi delle mani rivolti verso l’alto, verso quel cielo nero, pensava che pioveva sempre sul bagnato e che non poteva piovere per sempre. Aspettava. Aspettava. Aspettava la svolta, il vento di cambiamento. Stava attendendo e sentiva il vento soffiare sul suo viso smunto, ma al momento l’unico vento che tirava era una gelida tramontana che lo faceva gelare di fronte a tutto quello che gli si prospettava all’orizzonte.





Capitolo Tre.

Sono Sempre io?


Nella sua testa echeggiava una domanda. Sono sempre io? Era questo il quesito che ormai si poneva ogni tanto. Tutto quello che viveva, tutto quello che era costretto a fare, gli consentiva di conservare la sua identità? Era diventato qualcosa di diverso da quello che era una volta? Il suo modo di agire, di pensare era sempre quello di allora o spiccavano differenze? Sapeva che non si può rimanere immobili allo stesso punto per tutta la vita. I cambiamenti fanno parte del percorso di ognuno, fanno parte del proprio iter, i cambiamenti sono l’iter, ma i suoi che tipo di cambiamenti erano? Il cambiamento è bene e serve se migliora una situazione, ma se invece la peggiora? Come non si poteva riflettere almeno un po’ su quello che succedeva, lui ogni tanto lo faceva, ma il risultato finale delle sue elucubrazioni era che forse era meglio non concentrarsi eccessivamente e lasciar correre gli eventi. Con il tempo sarebbe cambiato qualcosa e sperava che il cambiamento sarebbe stato in meglio.
Il problema più impellente e che più lo opprimeva per come la vedeva lui era il fatto che non aveva il denaro sufficiente per coprire i debiti e se avesse continuato ad avere questo problema, prima del tempo non avrebbe potuto occuparsi degli altri problemi ancora. Il tutto si riduceva quindi al fatto che doveva prima risolvere i suoi intoppi economici. Per risolverli vendeva droga, questo era l’unico modo di guadagnare soldi rapidamente che conoscesse e che non comportasse rischi eccessivi secondo la sua ottica, lo faceva da non poco tempo e questo gli dava una certa sicurezza nel calcolo degli imprevisti e delle probabilità. Certo la rapina era un altro metodo che gli veniva spesso in mente, ma l’avrebbe presa in considerazione solamente se messo alle strette e nel caso avesse dovuto affrontare situazioni di tipo contundente o peggio ancor tagliente. Di questo passo non sarebbe più uscito da questo vortice. Il vortice diventava per lui sempre più normale e la normalità un vortice che turbinava intorno a lui in una moltitudine di sostanze, banconote e minacce.
Il tenore di vita a cui si era abituato, condizionato da un eccessivo facile guadagno per un ragazzo appena maggiorenne lo aveva completamente traviato, non voleva assolutamente prendere in considerazione il fatto che tutto quello spreco di soldi ed estremo consumo di stupefacenti prima o poi per un motivo od un altro avrebbe dovuto necessariamente terminare. Il lavoro non faceva per lui, questo pensava e studiava per modo di dire, negli ultimi anni il suo rendimento rasentava il ridicolo, ma non per questo avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, in fin dei conti lui i soldi sapeva bene come guadagnarli in altra maniera. Finchè non avesse avuto problemi di tipo legale che gli impedissero di continuare avrebbe continuato, perché no? L’università con calma sarebbe finita e i soldi sarebbero continuati ad arrivare. Era comunque una persona ancora piena di interessi amava il cinema, l’animazione, l’arte in generale, disegnava bene e gli piaceva dipingere, sapeva anche usare programmi di grafica che però si costringeva ad usare solamente per puro diletto.
Era anche un “writer” e l’unica cosa che talvolta lo staccava dalla dipendenza giornaliera erano i periodi che decideva di tornare a fare “Bombing”, in gergo graffitaro distruggere di scritte spray la città con i suoi relativi treni, autobus e metropolitane. Era un vandalo. Il writing lo faceva sentire vivo, l’adrenalina prima di entrare in un deposito, l’arrampicarsi sopra i palazzi, scavalcare le recinzioni, veder correre i treni con sopra scritto il proprio nome, rubare spray nei ferramenta erano tutte attività per lui abituali. Il “Writing” era per lui una delle poche valvole di sfogo, nei periodi più bui di solito impugnava gli spray per fuggire la tremenda desolazione che gli cresceva dentro.
Saltava quindi da periodi dettati da un reato così distruttivo come lo spaccio ad altri invece legati ad un reato che tuttavia lo aiutava a crescere a livello sia interiore che interpersonale. Quanto la droga lo portava ad isolarsi, tanto il dipingere lo portava a frequentare molte altre persone come lui, simili e con lo stesso hobby. Comunque sia con il passare del tempo e l’arrivo della dipendenza vera e propria anche questo diventava sempre più distante, gli stava scivolando via tutto il suo amore da dosso per finire a terra, risucchiato lontano dal suo controllo, lontano dai suoi pensieri. La droga in principio lo aiutava nella creazione delle opere e disegni, sembrava non dargli problemi, adesso invece era tutti i giorni e tutte le notti, un continuo. Senza sosta il suo naso non si fermava un momento. In  compenso non si era mai bucato in vita sua. Non lo aveva mai fatto, e non pensava di farlo. Fumava molta cocaina, quello forse era il problema più grande. Lo scoglio più imponente con cui combatteva. La bestia nera che lo portava a farsi debiti su debiti e che lo faceva nascondere alla gente. Lo faceva vergognare di se stesso, ogni volta che finiva di staccarsi da quella bottiglia incrostata di bianco, si chiedeva perché lo facesse. La risposta non sapeva trovarla. La sua dipendenza diventava visibile. Era in balia della droga. Ketamina ed eroina lo rilassavano, gli permettevano di sdraiarsi a letto e dormire. Sì dormire, ma un sonno sgradevole, pesante che non lo riposava. I suoi nervi erano sempre più tesi, le sue mani tremavano come la sua voce. E il suo sguardo schivava gli occhi della gente, si rendeva conto che non era normale e si sentiva osservato, diverso, sporco dentro. Gli veniva da piangere a volte, ma non si deve piangere, bisogna essere forti e resistere alle avversità, anche quando l’avversità più grossa sei te medesimo!




Ora batteva le chiavi della sua auto su uno dei tavolini del bar a Trastevere. Stava aspettando. Attendeva Marco, lì seduto fremeva di sapere se c’era qualche novità. Mille voci di persone gli confondevano
le idee, il  S. Calisto era uno dei bar più frequentati del rione numero tredici di Roma. Di certo la fauna che lo popolava era una delle più colorite, ma in ogni caso conosceva praticamente chiunque là dentro. “Romani de Roma” ed extracomunitari si mischiavano all’interno rendendo il locale molto variopinto. Che chiasso che facevano, una caciara insopportabile. Lui continuava a pippare. Stava fattissimo. Lo si vedeva chiaramente, ed i suoi pensieri erano offuscati. Troppo tutto e tutto insieme, ma insisteva nelle sue azioni antisalutistiche. Il bagno era lercio e puzzava, ma lui lo frequentava spesso, alternando amaro ed eroina in un mix estenuante. Attendeva l’arrivo dell’amico. Guardava all’esterno. C’erano persone di tutte le età che assaporavano alcolici e facevano canne, spinelli in continuazione, dando all’aria che si respirava un odore inconfondibile. Le guardie al S. Calisto chiudevano un occhio con lo spaccio, in fin dei conti giravano parecchi soldi da quelle parti, e una parte di questi arricchiva le loro tasche indubbiamente, non lo si poteva negare lo sapevano tutti. Solamente una coppia di poliziotti saltuariamente rompeva le scatole, così ogni tanto qualche ragazzino cretino veniva portato via e si passava la notte dentro al fresco. Logicamente lui non si metteva mai a vendere dentro il bar, al massimo si spostava nel vicolo lì vicino, dove poteva tenere tutto sotto controllo o almeno in parvenza. Aveva una bella clientela che spesso veniva a trovarlo. Prima di passare al bar aveva caricato dieci grammi di merce al volo da un’amica sua, aveva fatto i pezzi lì da lei ed ora si era messo già a lavoro. Si vendeva bene oggi. Aveva già più di trecento euro in tasca. Le cose giravano per il verso giusto almeno per una manciata di minuti ed in più si era cotto due grammi. Cocaina fatta in rocce che squagliava nella sua pipa personale di metallo al bagno. Ogni tiro era uno scossone per il suo sistema nervoso e per la sua anima corrotta. Aveva già iniziato a fumare, non era bene, Claudia gli avrebbe telefonato e se ne sarebbe subito accorta, non era stupida, e conosceva cosa vuol dire fumare, fumava anche lei. Quando fumava cercava di non esagerare,  “non più di mezzo grammo in due” ogni volta professava, ma per lui era come non fumare, quindi come sempre alla fine era “ben più di mezzo grammo in due”. Il suo livello di soddisfazione era difficile da raggiungere considerato il fatto che con quel tipo di sostanza non si è mai soddisfatti a priori, in più ne era completamente assuefatto, quindi l’appagamento diventava un traguardo praticamente irraggiungibile. Era un tossico a tutti gli effetti. Gli piaceva la droga e lui piaceva a lei. Un binomio formidabile, con l’unico fatto che lui a lei dava molto, mentre lei a lui non dava niente se non problemi, debiti e strazio. Il dazio da pagare era sempre più alto ed il danno dannosamente costoso.
Marco in quel momento arrivò al bar e sedeva accanto a lui, aveva l’affanno ed un occhio nero. Si trovava nei guai, lo stavano cercando e più che altro sembrava lo avessero trovato. Anche lui necessitava soldi, e non pochi. Si trovavano sulla stessa barca dell’amico che colava a picco. Se da soli erano pericolosi in coppia diventavano più che tremendi. Stavano escogitando vendetta verso il nemico. Tramavano. Parlavano di cose molto cattive, come il film! Parlavano ad alta voce e nei bar anche i muri hanno orecchie. Marco era stato picchiato da quattro ragazzi insieme e non gli andava giù, se prima era nel torto ora si sentiva sulla sponda del fiume opposta. Un fiume di guai. Era un cane randagio e rabbioso che si leccava le ferite e il suo amico era dalla sua. Lui si stava mettendo in mezzo ad un altro impiccio e neanche ci stava facendo caso. Un altro di quegli impicci più che inutili, totalmente superflui come i peli di troppo per una bella ragazza.
<’Sti ‘nfami, ‘nfami fracichi, ‘n quattro!… pezzi de’ mmerda!>.
<’Ccoddinci!… ‘n ce vojo crede… davero però!… ‘n se sò regolati>.
<Li dovemo sfonnà>.
<Mò se ‘nventamo quarcosa damme retta!>
<Devono morì, li vojo vedè per tera cor sangue vero!>.
<Su questo n ce piove!… comunque senti, pe quell’artra cosa? Che hai sentito già? Novità? Dimme và, cambiamo discorso che è mejo>.
Marco si guardò intorno. Come per assicurarsi che non ci fossero orecchi indiscreti. Di poliziotti in borghese ce ne erano fin troppi, ma loro li conoscevano uno ad uno, troppe volte avevano visto gente essere portata via. Tutto ok! Il bar non presentava forze dell’ordine mascherate da comuni esseri umani tra la schiera di drogati alcolizzati e fatti. Potevano parlare anche se, sempre con attenzione.
<Tutto a posto r fumo è arivato.>
<Da paura quanno lo ‘nnamo a prenne?>
<Ce so ‘nnato io, sò cinque pe me e dieci a te, che dici?>
<Che sei bello! Me fai godè come na stronza!>
<Lo so che sò bravo!>.
<Più che bravo, sei ‘na sarvezza>.
<Quanno te lo vieni a prenne?>
<Domani verso pranzo>.
<Ma viè la mattina proprio, no?>
<Ah Mà. Sto già ‘ntrippato adesso figurate domattina… che voj che vengo prima de annà a dormì? Fresco come ‘na rosa, anzi bello come n fiore der deserto!>.
<Immagino, già te vedo!>
<Ahah… ahah… ahah!>. Che cosa si rideva lo sapeva solo lui. Non c’era niente da ridere, ma rideva uguale, d’altro canto stava ubriachissimo. Adesso si sentiva tranquillo c’era il materiale, c’era lavoro, ci sarebbero stati soldi. Dieci chili erano almeno tremila euro tondi, tondi. Poi aveva anche la cocaina, si poteva festeggiare come tutte le sere, tutte le notti e tutti i giorni. Ogni momento, ogni istante e pure ogni secondo al caso non si lasciava niente.
Driin. Driin. Driiiinn! Telefono. Claudia? No, cliente. Evviva, evviva!
Si alzò, infilò la giacca e uscì fuori camminando per lo stretto vicolo trasteverino. Lo chiamava “L’ufficio”. Diceva sempre che avrebbe fatto piacere a sua madre sapere che lavorava in ufficio. Simpatico! Veramente esilarante, lui sì che sapeva rendersi simpatico quando voleva.
Di fuori vendeva altri tre pezzi da 0,4 per la cifra di centoventi euro. Soldi, soldi, soldi chi ha tanti soldi vive come un pascià…
Continuava a bagnarsi, pioveva di nuovo ma non gli fregava niente, Si avvicinava l’ora del pasto, così per un po’ smise di scrackare (fumare Crack), altrimenti gli sarebbe mancato l’appetito.
Aveva deciso di tornare dalla sua “amica nemica”, ora aveva dell’altro contante da spendere. Spendere era uno dei verbi che più gli piaceva, come pure comprare.
<Ah Marchè!! ‘Nnamo accompagname da na parte! Che devo fa n giro, stasera se divertimo!>. Gridava al complice.
<Pure stasera?>. Marco con aria spaventata guardava l’altro.
<E che c’è de male, daje che pago io. A te che cazzo te frega, basta che c’hai ‘n pormone da buttà e ‘n core da mette alla prova. Ar resto ce penso io.>
<E’ quello che me spaventa!>.
<Non ce devi avè paura Marchè, che è tutto a posto!>. Ancora quella frase che riecheggiva tra il suo palato arrossato e la sua lingua bianca, pallida e secca inaridita dalla colombiana spettacolare che aveva rimediato ad un prezzo stracciato. Si ripartiva come tutte le volte, come sempre.
Non era più lui. Era qualcosa di diverso. Un riflesso della persona che era un tempo. Solo questo rimaneva. Evidentemente qualcosa di sostanziale era cambiato. La sostanza era evidentemente cambiata. Il cambiamento in sostanza era evidente. Era proprio così.




Capitolo Quattro.

Verso Sera.

Le mani erano bagnate, sia dall’acqua che dal sudore. Il suo corpo spurgava sotto forma di liquido salino le tossine in eccesso che aveva in circolazione nel sangue. Mentre lui stringeva lo sterzo, Marco stendeva altre due strisce. I tergicristalli fischiavano sul parabrezza tanto che sembrava che piangessero, emettevano un insolito rumore, poi forse neanche così insolito, quell’insolito rumore che i tergicristalli fanno quando sono vecchi e rovinati.
Il sole era sceso sotto la linea frastagliata dei palazzi all’orizzonte, si riusciva ormai ad intravedere solamente poca luce che trapassava tra le sagome monolitiche ai bordi dei viali.
Gli alberi erano piegati dal vento che tirava forte, soffiava come non soffiava da tempo da quelle parti. I lampioni erano accesi, e con le loro luci gialle e fioche conferivano al vicinato un effetto simile a quello dato dalle vecchie foto opacizzate e sbiadite dallo scandire degli anni.
Il buio si faceva più intenso tutto intorno a lui. L’ oscurità prendeva il sopravvento sulla luce e sulla sua vita. Il cielo era come pece, nero, putrido, dietro quelle nuvole gravide d’acqua e fulmini non c’era neanche la luna a rischiarare l’atmosfera. Il cielo dava una sensazione per niente rassicurante. Un “non so che” d’allarmante avvolgeva tutto nell’oscurità.
Pensava a Claudia, ai propri genitori e suo fratello sapeva che li stava ferendo, ma non voleva rinunciare ai suoi vizi. I vizi ora come ora facevano parte di sé, del suo modo d’essere e d’agire, non voleva farne a meno.
Doveva chiamare Claudia ma non prima di aver chiamato ancora Sonia, non aveva molti soldi nel cellulare e così non voleva correre il rischio di non poterla sentire, fare quella telefonata era troppo importante per lui in quel momento, quella prima di tutto, quella prima di ogni cosa, prima di ogni cosa lo “Spacciamorte”.
Quando fumava cocaina perdeva totalmente il controllo di se stesso, solo la droga aveva importanza, veniva prima d’ogni cosa, se c’era la sostanza andava tutto bene, per il resto poteva anche chiudere un occhio, ma lei doveva assolutamente non mancare.
<Vengo subito, sono quasi da te, se vuoi scendi.>
Parcheggiava la macchina, vicino casa di lei e mentre aspettava pisciava un po’ dell’alcol bevuto nelle ore che precedevano quel momento. Marco gli faceva compagnia, stava fatto anche lui ora. Sentiva addosso il calore che ti mette l’eroina.
Sonia era lì con loro, saliva in macchina sui sedili di dietro e ripartivano insieme. Scesero ad un bar là vicino dalle parti di Boccea, chiacchieravano e facevano due risate.
Claudia nel frattempo aveva chiamato, si era fatta sentire per dirgli che voleva qualcosa di rilassante dopo una giornata di studio. Lui comprò un pezzo anche per lei, stavano insieme questa sera. Un po’ di sesso e droga con il suo amore. Anche se la trascurava era pur sempre il suo amore. Lui la amava tantissimo e lei ricambiava.
Un Campari jin, una grappa per Marco ed un succo di frutta ACE a Sonia, bevevano, assaporavano i loro drink. A lui continuando a mandar giù alcool venne il vomito, in fin dei conti il suo stomaco ormai da tempo era danneggiato. Soffriva per via di una gastrite cronica con ernia iatale, ed oltre a quella collezionava una altra lunga serie di malori sparpagliati su tutto il corpo tra cistifellea, vescica, intestino, retto e denti insieme all’esofago. Non stava bene, quella estate era stato ricoverato e ciò evidenziava il fatto che il suo fisico stesse risentendo delle azioni che commetteva. Erano duri i colpi che continuava ad infliggersi, ed inoltre non ne aveva ancora la certezza, ma anche polmoni e cuore aveva la sensazione che gli dessero non pochi altri problemi.
In quel bar regnava un odore acre e fastidioso, l’arredamento era fatiscente, anzi cadeva a pezzi, però in compenso il proprietario era molto simpatico e lui apprezzava la gente che compiva il proprio lavoro col sorriso in faccia. Sosteneva che ogni mestiere se fatto con armonia poteva essere dignitoso.
20:21 era arrivata l’ora di andare a mangiare qualcosa. E così richiamò Claudia convincendola ad andare con loro, offriva la cena ad entrambi, a lei e a Marco.
Claudia non amava molto stare con lui ed i suoi amici a tavola, sosteneva che insieme diventassero insopportabili. Ma quella volta fece un’eccezione, anche perché si fece promettere che subito dopo il pasto sarebbero andati da lei. Voleva rimanere da sola con il suo uomo. Un po’ di relax meritato e giusto. Quindi mentre si cercava di capire al telefono con Claudia verso quale ristorante, pizzeria o trattoria sarebbero andati, Sonia invece tornò dalle parti di casa sua, lei doveva vedersi ancora con molta altra gente e così andò via da sola, incamminandosi verso la metro più vicina.
Continuava in questo modo e con questo ritmo incalzante la piccola e tragica odissea urbana che vi racconto e di cui devo ancora raccontare molte cose. La sua corsa di tutti i giorni verso un rapido e sempre più inevitabile epilogo.
In questi momenti o circostanze, arrivato a dei livelli molto alti di astrazione dalla realtà e dalle cose, non pensava più a niente, rideva, si divertiva, la compagnia lo distraeva.
Le cose che vedeva erano la versione deforme di ciò che la sua mente soggiogata ai vizi gli offriva. Un mondo in cui poteva fare tutto, un cosmo di cui lui ne era il centro, si sentiva importante si sentiva tanto forte da condizionare e gestire tutti gli eventi.
I debiti erano ancora lì, non si erano cancellati ma era come se lo fossero almeno finchè l’effetto di ciò che aveva assunto durava, andava tutto bene, e l’effetto sarebbe durato ancora per molto e molto ancora. Avrebbe visto l’alba e avrebbe sentito lo scoppio del cannone del Gianicolo a mezzogiorno, d’altronde era così tutte le volte. Non c’erano dubbi.
Claudia li aveva raggiunti, sedevano a un tavolino di quelli piccoli e tondi, all’interno di un ristorante molto carino e non troppo costoso dalle parti del centro verso piazza Farnese.
Mangiavano, parlavano e soprattutto scherzavano, scherzavano su tutto, scherzavano troppo, nessuno di loro era cosciente di cosa li avrebbe investiti in un futuro molto prossimo e quindi nella loro spensieratezza aiutata dall’alcol si divertivano insieme, ma per quanto lo avrebbero potuto fare ancora?
Il tempo passava, passava velocemente e così facendo nel frattempo erano arrivati ai caffè con grappa, dopo ben quattro bottiglie di vino in tre, anzi diciamo pure in due, Claudia non beveva troppo. Usciti dal locale continuavano a parlare, parlavano ad alta voce, le loro risa invadevano ogni vicolo in cui passavano, erano risa forti, risa inconsapevoli, le risa di chi non capisce e di chi non vuol capire.
Claudia, che non rideva poi tanto come loro, pensava un po’ di più e suoi pensieri di sicuro non erano felici. Quello spettacolo la faceva pensare,
nessuno lo conosceva bene come lei, tutti vedevano sempre quella persona sorridente e pronta a far ridere in ogni momento, ma poi chi rimaneva da sola con lui quando finivano i momenti delle apparenze era lei.
In quegli istanti il suo viso e i suoi occhi di mischiavano ad un’espressione di domanda, d’inquietudine e paura, non sapeva cosa sarebbe successo. Si chiedeva e domandava a se stessa ma senza risultato, tanto che in fine anche lei preferiva non pensare eccessivamente, perché tutte le conclusioni a cui arrivava non erano gradevoli e magari alla fine tutto si sarebbe messo a posto.
Camminavano verso la macchina parcheggiata, respirando aria fresca dopo il calore accumulato nella gremita sala del ristorante, il rumore dei passi era gradevole e rimbombava nella testa di lui ciondolante e ipnotizzandolo, mentre l’alcol impersonificato nel suo diavolo tentatore ordinava solamente una cosa in quel momento, il suo cervello era spinto al margine, al limite e superato anche quello l’unica parola che gli veniva in mente era la sola ed unica che conoscesse in quegli istanti di alcolica follia, “Crack”.
La sua voglia di fumare ora era incontenibile. Claudia sarebbe dovuta sottostare al suo forcing mentale estenuante, sino al momento in cui avrebbe accettato. Seppur non la facesse impazzire, aveva deciso che avrebbe fumato anche lei per questa volta, tanto aveva l’eroina per smorzare e poi in quello stato se non avesse deciso di fumare, lui non sarebbe mai andato a casa sua, perché a lui ora importava solo quello e quella era la sua priorità assoluta.
Guidava verso casa di lei con molta fretta, aveva bisogno e correva per la strada davanti a sé, ma prima di arrivare a destinazione doveva lasciare l’amico da qualche parte.
Si accostò al marciapiede senza neanche mettere la freccia, l’automobile dietro a lui non mancò di farglielo notare con un lungo lamento del clacson, Claudia storse la bocca come faceva lei di solito in questi frangenti. Lui si girò di dietro la guardò e disse <Non ti preoccupare, è tutto a posto, ahhh… ahh… ahahhahhh!!!> rideva ancora, rideva sempre e rideva a sproposito.
Marco scendeva dall’auto e salutava l’amico con la ragazza, lo salutava anche se sapeva perfettamente che l’avrebbe rivisto dopo poche ore. Claudia però doveva credere che non si sarebbero incontrati di nuovo. Così per rendere il tutto più credibile Marco si fece lasciare qualche botta di cocaina a simboleggiare il fatto che dopo non si sarebbero potuti rivedere. Marco era furbo e drogato come l’amico. L’altro quindi senza problemi non lasciò il compare a mani vuote, gli passò la bustina si scambiarono uno sguardo di intesa e si salutarono di nuovo. Marco si dirigeva verso Trastevere, andava a beccare un po’ di gente in giro, in fin dei conti la notte per loro era ancora giovane, anzi giovanissima.
Gli altri due ora salivano i tre piani di scale che separavano il portone del palazzo dall’ingresso dell’appartamento di Claudia. Le mani con lo smalto trasparente della ragazza cercavano dentro la sua enorme borsa le chiavi di casa. Ogni volta ne passava di tempo prima che venissero trovate, ma lui sapeva aspettare. Sapeva aspettare perché di lei amava tutto, soprattutto amava vederla compiere anche i gesti più normali, erano le sue gestualità, i suoi modi di fare anche le cose più banali che lo facevano impazzire, ogni piccolo movimento, ogni espressione legata anche a piccoli gesti quotidiani per lui erano motivo di gioia e di benessere.
 Dopo la lunga e attenta ricerca dell’oggetto metallico, in fine vedevano la chiave più lunga del mazzo infilarsi vicino la maniglia e con tre mandate aprire la porta. Tre mandate. Tre mandate di chiave nella toppa stavano a significare che nell’appartamento non c’era nessuno, ossia che era vuoto, i genitori di Claudia erano usciti e ancora dovevano tornare.
Così potevano iniziare immediatamente i preparativi per fumare cocaina. In primis ci si occupava dell’assemblaggio e costruzione della pipa. Di norma la pipa in questione era una semplice bottiglietta d’acqua da mezzo litro vuota che veniva riempita di nuovo per poco più di metà, tanto da poter creare una camera d’aria non eccessiva. Se la camera d’aria fosse stata troppo ampia al momento di fumarla non si sarebbe riuscito a svuotarla del tutto dal fumo e quindi il tiro in sé sarebbe andato sprecato. La bottiglia veniva perforata da una sigaretta all’altezza della camera d’aria e non sotto il filo dell’acqua visto che non si voleva innaffiare il pavimento. Questo procedimento serviva ad ottenere  il buco dove si sarebbe infilata una penna a sfera “Bic” spezzata per creare la cannuccia con il quale si sarebbe aspirato il candido fumo bianco. A seguire il collo della bottiglia veniva coperto con della carta stagnola che bucata da uno stuzzicadenti sarebbe diventata il braciere dove poggiare la roccia di cocaina, “Crack”.
Dopo ciò la pipa era pronta. Ovviamente adesso andava cotta la sostanza che a discrezione del cuoco poteva essere cucinata con ammoniaca o con acqua e bicarbonato.
Lui preferiva di gran lunga acqua e bicarbonato. La cocaina messa sul cucchiaio veniva ricoperta da un leggero strato di bicarbonato di sodio, poi il tutto veniva bagnato con gocce d’acqua. Sotto il cucchiaio si accendeva la fiamma dell’accendino. L’acqua iniziava a riempirsi di tante bollicine, la cocaina ribolliva insieme al bicarbonato. Da polvere diventava goccia. Quella goccia oleosa di colore giallo testimoniava il fatto di quanto la droga in questione fosse buona. Le sue mani già tremavano, il solo guardare quella scena gli faceva stringere lo stomaco.
Lo stomaco e la pancia gli si gonfiavano d’aria, e il suo petto veniva invaso da una sensazione d’ansia. Voleva assaporarla, voleva sentire i suoi polmoni gonfiarsi, voleva sentire quel sapore, il sapore di plastica che ti lascia quella sostanza sul palato e sulle labbra. Claudia lo osservava ne aveva voglia anche lei, ma in  realtà era turbata nel vederlo così. Non era più lui, il suo sguardo brillava di una strana luce, era folle, come impazzito e in balia di qualcosa che non controllava, sembrava che vibrasse sotto la luce della lampada da tavolo sulla sua scrivania tanto i nervi erano tesi.
Claudia iniziava a poggiare la cenere sulla stagnola, mentre lui faceva asciugare quella parte di “cotta” già tolta dal cucchiaio sopra un foglio di scottex. L’aveva estratta dal cucchiaio aiutandosi con un coltello da cucina, di quelli con la punta tonda.
Era irrigidito già adesso, tremava, sudava e ansimava prima ancora di fumarla. Fuori di sé, era totalmente fuori di sé, la sua ragazza gli parlava, me lui era come se non sentisse, aveva già la voce strozzata e quindi non rispondeva annuiva solamente con dei frenetici movimenti della testa.



Ora la sua bocca poggiava le labbra screpolate e secche sulla cannuccia, Claudia sentì lo schioccare della accendino e quando si girò, vide una roccia di proporzioni enormi sciogliersi sotto il calore della fiamma.
Tirava, tirava forte e a pieni polmoni, più aspirava e più i suoi occhi si spalancavano, il petto era gonfio ed arcuato verso l’alto. La bocca si staccò. Tratteneva in sé il suo male più grande. Tratteneva in sé un qualcosa che lo appagava solo in quell’istante, appena avesse espulso la nuvola tossica dal suo interno sarebbe iniziata la sua pena.
L’odore fortissimo della bottiglia calda e fumante invadeva tutta la stanza. Le sue mani irrigidite come fossero di pietra stringevano e non lasciavano più i braccioli della sedia su cui sedeva. Dietro le orecchie per la nuca e su tutto il collo la sua pelle iniziò ad accapponarsi e tirarsi su. La sua mascella tremava mentre sputava il suo fumo, le sue orecchie fischiavano. Non sentiva più niente, l’unico rumore che percepiva era simile a quello di uno scacciapensieri siciliano.
<Tutto a posto?>. Claudia chiese.
Non rispondeva e non girava neppure la testa.
<Ahò! Tutto bene?>.
Il cuore di lui per un attimo saltò, fu quasi come se si fosse bloccato per una frazione di secondo e poi ripartito immediatamente, lui si girò la guardò e mosse la testa su e giù. Da quel momento non disse più niente per parecchio tempo.
Claudia caricava il suo tiro sulla stagnola e pensava chi glielo avesse fatto fare. Non poteva guardarlo in quelle condizioni, era orribile per lei, insostenibile. Lui si girava e si guardava intorno, cercava di ascoltare cose che non c’erano e che se pure ci fossero state non era assolutamente in grado di sentire, si convinceva di percepire rumori provenienti da dietro la porta della camera chiusa. Erano tutte allucinazioni che lo impanicavano ancor più di quanto non avesse fatto quel tiro in se stesso. Paranoia, ansia e terrore erano queste le sensazioni che lo attanagliavano e che lo costringevano solamente ad un’unica azione, quella di fumare ancora.
Non aveva alternativa, l’unica cosa che riusciva a fare era quella di fumare un tiro dietro l’altro e quello faceva.
Ormai avevano iniziato e finchè non fosse finita la cocaina almeno quella già cotta e Claudia non avesse impedito di cuocerne dell’altra quello si sarebbe fatto per le prossime ore.
Un tiro dopo l’altro uno alla volta, come in una catena di montaggio i loro gesti erano alienati e si ripetevano in sequenza. Solamente ogni tanto la monotonia degli eventi veniva interrotta da Claudia che metteva botte d’eroina per allentare un po’ la tensione.
Fortunatamente l’eroina, riuscì a farlo sbloccare da quello che stava facendo, gli aveva dato quel senso di appagamento che la “bottiglia” non ti da mai.
Era riuscito a sbloccarsi, stava tornando normale, aveva smesso di essere quella macchina infernale capace di svolgere solamente un compito.
Piano, piano anche i suoi movimenti perdevano quella rigidezza acquisita in precedenza, si scioglieva e anche l’atmosfera in quella stanza si stava rilassando.
Vedevano un film e facevano l’amore, facevano l’amore e vedevano un film, così gli piaceva, di sdraiarsi sul letto sotto le coperte e di stare abbracciati insieme.
Di tempo ne passò, si erano fatte quasi le tre di notte e lui doveva andare via.
Aveva tolto la suoneria al cellulare, perché quando fumava non voleva parlare con nessuno, anzi non ci riusciva proprio, e adesso sapeva che doveva confrontarsi con quel display. Il display gli avrebbe detto chi lo aveva cercato, adesso che era tornato cosciente pensava a chi avrebbe dovuto vedere, chi avrebbe dovuto vedere e che non aveva visto.
Forse questa era la parte della sua giornata che meno gli piaceva, l’attimo in cui riacquistava le sue capacità mentali e doveva un minimo ragionare sul da farsi e soprattutto sul fatto.
Cosa era successo? Cos’era successo? Era successo quello che succedeva ormai da molto tempo e che soprattutto succedeva da troppo. Poi la serata non era ancora finita, doveva uscire di nuovo e il tornare in giro cosa avrebbe comportato? Non era difficile da immaginarlo.
<Clà… >.
<Eh?>.
<Io devo annà>.
<Lo sò>.
<Bèh… Se sentimo domani… >.
<Ok>.
<C’hai sonno piccola?>.
<E grazie che c’ho sonno!>.
<Bella che sei… >.
<Che fai domani?>.
<Boh?... Perché?>.
<Te va de venimme a prenne a pranzo?>.
<Pranzo?>.
<Eh, sì a pranzo!>.
<Clà, lo sai che dormo>.
<Embè… Figurate se te arzi… Non sia mai… >.
<Dai che devo annà>.
<’Notte>.
<Mò che te sei arrabbiata?>.
<No ‘n me so arrabbiata… >.
<C’hai sto tono… >.
<Che tono c’ho?>.
<Niente. Dai allora ciao>.
<Ciao>.
Si baciarono, lui le accarezzò il viso e chiuse la porta della camera. In silenzio arrivò alla porta di casa, nel buio senza accendere la luce la aprì e la richiuse dolcemente alle sue spalle.




Capitolo Cinque.

Cerchioni in Lega.


Soffiava, soffiava a più non posso il vento che si abbatteva sul portone del palazzo. La notte era calata, gelida, fredda, portatrice di idee nefande e di conseguenze non più tragiche di quelle già passate. La notte lo portava a fare a cose che neppure lui stesso ben capiva, era coma se fosse stregato. Nel momento in cui il sole smetteva di splendere alto nel cielo, i suoi pensieri, e le sue buone idee venivano nascoste dal buio, un buio sempre più presente, più costante, più denso, un buio che faceva impallidire anche la più forte delle luci.
Il portone s’aprì e la sua figura infreddolita s’affacciò sulla strada. L’aria gelida lo fece irrigidire. Veloce si spinse verso la macchina, sentiva freddo. Entrò dentro la vettura, accese il motore e mentre aspettava che si scaldasse, cercava il cellulare nelle sue tasche piene di roba.
Lo schermo del telefono segnava molte chiamate senza risposta, nell’elenco c’erano tanti numeri che risultavano sconosciuti e oltre a quelli c’erano tutti gli altri che conosceva.
Odiava vedere tutte quelle chiamate senza risposta, non lo facevano stare tranquillo, erano la testimonianza del fatto che prima non avesse voluto e potuto rispondere, testimoniavano una sua grande debolezza.
Lo avevano cercato le persone che avrebbe dovuto vedere, sapeva che aveva promesso che sarebbe passato nel pomeriggio a sistemare, ma non lo aveva fatto.
Non aveva chiamato nessuno e non aveva avvertito nessun’altro, questo faceva sembrare la cosa come se si stesse nascondendo. Non aveva voglia di raccontare la storia del lancio, sembrava il solito racconto del cane che mangia il quaderno con i compiti. Aveva preferito tardare, e nel mentre aveva rimediato un po’ di soldi per presentarsi l’indomani non a mani vuote, non amava raccontare storie strane, perché quelle venivano prese immediatamente per menzogne, ma comunque anche sparire non è che fosse la migliore delle scelte.
La sua forse non era nemmeno una scelta vera e propria, le sue azioni erano dettate dall’ebbrezza, non venivano ponderate più di tanto, semplicemente preferiva scordarsi a suo piacimento delle preoccupazioni che lo affliggevano almeno finchè non fosse tornato lucido.
Lo faceva innervosire questa cosa ma non poteva farci niente, così funzionava e così avrebbe funzionato per molto altro tempo ancora. La sua testa era gravida di brutti pensieri e tremende preoccupazioni. Buffi, buffi, buffi e ancora buffi era stato sempre così, ma prima era differente non spendeva tutto quel denaro per niente.
Nella sua testa si accavallavano sempre più pensieri gravi, il suo sguardo era ricolmo di un vuoto allucinato sempre più potente, più costante, non vedeva e non credeva più in un futuro in quei momenti. Pessimismo esistenziale. Il momento peggiore della giornata era quando tornava a casa e stravolto cercava di mettersi a dormire, ma non gli riusciva bene per il semplice fatto che nella sua testa si iniziavano ad accavallare numeri, cifre, conti che venivano ripetuti all’infinito fino al momento in cui crollava sotto il peso di una matematica che lo schiacciava e lo  faceva dormire male, malissimo. Aveva sempre amato poco la matematica, infatti come sosteneva anche suo padre di se stesso, loro erano uomini di lettere. In realtà anche questa era una delle battute del suo repertorio più scadente, quello farfugliante, quello sbiascicante, quello che con l’italiano e le lettere in realtà ha veramente poco a che fare!
Era vittima del suo stesso gioco, vittima di una non vita che lo torturava e che torturava tutte le persone che ancora gli volevano bene. Il punto era che sapeva perfettamente che cosa stava rischiando, ma allo stesso tempo era proprio quel rischio che amava tanto, una delle cose che lo faceva sentire vivo. Non passava attimo in cui non avvertisse tutto il male che produceva, il male che lo portava a fare tutto ciò che c’è di più sbagliato per un uomo.
Il rumore dei san pietrini bagnati per le vie del centro nei suoi momenti di solitudine e riflessione gli infondevano un senso di paura, legava quel rumore a tutte quelle notti in cui vagava per la città solo in macchina, solo con i suoi timori, pensieri, solo di fronte ad un destino che disegnava lui stesso con le sue mani. Il vizio, il piacere effimero, il piacere sintetico, tutto quello per cui viveva era questo, ogni suo guadagno ed ogni sua mossa ed azione era condizionata dalla ricerca di un qualcosa che evidentemente non serviva a niente.
La luce gialla dei lampioni lo accompagnava nel suo viaggio, la città di notte lo affascinava, lo stregava, gli faceva compagnia, il silenzio gli parlava all’orecchio, il rumore delle fronde degli alberi al Gianicolo piegati dal vento, lo scricchiolio dei passi delle poche ed ultime coppiette temerarie sotto la pioggia, anche se la luna non si affacciava dietro le nuvole lui ne poteva sentire l’influsso, come la marea anch’egli la pensava, la pensava come una compagna sempre lassù immobile ad osservarlo, splendete della sua pallida luce.
Pioveva e pioveva sempre più fitto e forte, i tergicristalli al massimo della velocità sembravano non servire a niente, era inutile il loro dimenarsi frenetico, si era concesso di fumare ancora qualche roccetta, di fumare una roccia ad ogni semaforo cui si fermava e fumare ad ogni semaforo lo metteva a dura prova, ogni tiro era un’ansia, una paura in più che gli si avvinghiava al cervello e alla testa. Pullulava il suo cranio di terrore e rimorso, ma ciò non serviva a fermarlo, anzi lo faceva continuare. La spirale lo faceva vorticare così velocemente che diveniva sempre più estrema e lui di quel girare e roteare amava ed odiava allo stesso tempo sempre di più ogni piccolo istante.
Le luci attraverso i finestrini sbiadivano sempre più, confondendosi in arabeschi disegnati dalla luce gialla tutt’intorno, offuscato era tutto quello che lo circondava, come quello che lo riempiva. Inalava e pippava ketamina ed ancora eroina, negli intervalli in cui non fumava dalla pipa.
Non si era reso conto che con la macchina si era praticamente fermato in mezzo alla strada, e le macchine che erano dietro di lui suonavano il clacson con sempre più insistenza. Dal semaforo dopo l’ultima sosta non era più partito. La sua testa ciondolava, quasi poggiata sul volante per quanto stava inclinata davanti. D’un tratto s’aprì lo sportello, uno degli automobilisti dietro di lui si era deciso a scendere e di prendersi tutta l’acqua che cadeva pur di dirgliene quattro. L’uomo che aprì la portiera  lo osservò, in primis pensò che si era sentito forse male, poi lo vide  stringere ancora in mano la pipa incandescente e fumante, l’espressione dalla preoccupazione cambiò immediatamente in minaccia e violentemente lo afferrò per la felpa e cercò di tirarlo fuori dall’auto. Appena in contatto il suo viso con l’acqua gelida piovana, spalancò gli occhi e per un secondo forse tornò in se od in ogni caso avvertì il pericolo, aggrottò le sopracciglia, girò la testa verso il nemico e senza pensarci due volte sbattè la pipa bollente in faccia all’avversario. Lo prese in un occhio, ed egli urlò in preda al dolore arretrando, tre passi indietro, passi che lo allontanarono dalla macchina, passi che offrirono la possibilità di fuga. Il ragazzo inserì la prima e partì di corsa. Lo slancio della ripartita fece richiudere lo sportello con un tonfo, la macchina slittò sul bagnato strusciando e andando a sbattere contro tre motorini parcheggiati sul bordo della strada che caddero tutti insieme. Strike! Immediatamente la vettura saliva la ripida salita e girò la curva perdendosi come un fantasma nella notte.
Ancora non focalizzava bene il fatto appena accaduto ma rideva, rideva a più non posso si stava divertendo troppo. Quel tizio era un omone veramente grosso, calvo e con una folta barba nera, se era incazzato prima per essere sceso ed essersi bagnato, ora doveva essere veramente furibondo, ma questo a lui non interessava perché era riuscito a scappare ed era già molto lontano. Poi accecato e con tutta quell’acqua che veniva giù era impossibile che avesse potuto prendere la targa, in poche parole era salvo.
Ad un tratto il suo telefono iniziò a squillare, chi poteva essere a quell’ora? Non riusciva a ragionare e non voleva sapere chi fosse così neanche tirò fuori dalla tasca il cellulare, alzò il volume del suo stereo e spinse l’acceleratore correndo a più non posso. Poi tornando a riflettere per un momento si ricordò di Marco e prese il cellulare in mano, non era Marco, era Sadok il suo amico tunisino, amico e compagno di mille disavventure, che lo stava cercando. Marco invece era sparito, non aveva più sue notizie, il telefono era spento ma non era grave, doveva aver trovato qualcos’altro da fare o magari semplicemente si era rotto di stare in giro con quel tempaccio e se ne era tornato a casa. Riformulò così il numero di Sadok e lo chiamò, anche il suo amico aveva lasciato la propria ragazza a casa, ed essendo ubriaco non voleva andare a dormire, stava in giro con il furgone del lavoro come tutte le notti non avendo fissa dimora in quel periodo della sua vita, come di norma non aveva riportato il furgone in magazzino e passava da un bar all’altro guidandolo per le strade della città senza metà.
Si parlarono e si diedero un appuntamento al Gianicolo, uno dei loro ritrovi notturni preferiti. Il “Gianicolo”, per chi non ne fosse al corrente, è un punto abbastanza alto della città di Roma che sovrasta Trastevere, con la più bella vista che si può avere della capitale. Proprio lì c’era e c’è ancora un chiosco aperto anche di notte, perché gestito da dei Bengalesi che dormono all’interno dello stabile senza mai lasciarlo incustodito e che i due amici puntualmente andavano a svegliare per soddisfare il loro grande bisogno di sete. In effetti pensandoci bene  era solamente per loro che era aperto tutta la notte, un altro qualunque dei passanti avrebbe considerato il chiosco chiuso, dato che era tutto spento. Non credo proprio che i bengalesi avessero mai gradito la loro compagnia durante la notte.
Sadok beveva molto ma non si drogava parecchio, il suo tempo l’aveva fatto, quando anni prima andavano a ballare insieme ai rave illegali, erano gli anni dei trip, LSD, speed e pasticche, gli anni delle droghe sintetiche.
Si incontrarono, si abbracciarono e ridevano raccontandosi le rispettive giornate. Sadok lo conosceva bene, meglio di altri e ancora si stupiva nel veder l’amico drogarsi in quel modo. Era una macchina insaziabile, non smetteva mai e non dava segni di voler smettere, ma in tutto ciò la sua mente a parte nei momenti più estremi sapeva rimanere lucida, ed era capace ancora di formulare pensieri profondi e secondo lui intelligenti. Bevute le loro rispettive tre Ceres a testa erano decisi di andare a fare un giro. Un “giro” dei loro comportava un qualche divertimento di genere illegale improvvisato sul momento. A Sadok quella notte servivano dei cerchi in lega per la propria auto, aveva deciso così e così partirono alla ricerca, e a scapito di qualche povero ignaro li avrebbero rimediati.



Preso il furgone di Sadok, suo per così dire, e lasciata la Golf si allontanavano dal Gianicolo e partivano per una ricerca che vedeva protagonista il quartiere di Monteverde Vecchio e Nuovo. Conoscevano bene quelle vie e vicoli, era lì che erano cresciuti e in quelle strade si sentivano più sicuri, così che potessero agire con tranquillità. Per prima cosa servivano almeno due crick, che non dovevano essere loro, perché nel caso fossero dovuti scappare potevano abbandonarli senza perdere niente di loro proprietà. Quindi con delle pietre o con delle semplici pedate scoppiavano i finestrini laterali di vecchie auto che non avevano antifurto, i laterali ovviamente perché il parabrezza era in vetro resina e di conseguenza non scoppiava, eliminato il finestrino aprivano il cofano e portavano via i crick, elementi necessari per proseguire il lavoro.
La prima parte del piano, la più veloce e meno difficile era riuscita perfettamente, non c’erano stati problemi. Avevano quello che gli serviva per il momento, ora c’era da fare il resto.
Giravano, giravano e giravano ancora, lentamente al buio e sotto una leggera pioggia. La pioggia era propizia per il semplice fatto che c’era meno gente in giro, poi a quell’ora non c’era proprio nessuno. Finalmente l’avevano vista, la macchina che stavano cercando era proprio davanti a loro, una 600 Fiat di quelle nuove! Ora come volevasi dimostrare il tasso alcolico doveva essere molto elevato, perché chiunque a questo punto si sarebbe chiesto perché rischiare la galera per andare a rubare dei cerchioni in lega da mettere su un’orrenda Fiat 600 azzurro metallizzato? La risposta è difficile da trovare ma diciamo pure che se mai doveste andare a farlo anche voi, vi assicuro che con loro vi sareste divertiti tanto.
Come due ombre scivolavano giù dal furgone e si avvicinavano alla preda. Mentre il primo svitava i bulloni, l’altro iniziava a posizionare i crick in modo che al momento giusto avrebbero potuto alzare la macchina e sfilare le ruote tanto agogniate. Ne avevano già tolte due, ora erano passati alla terza, quando ad un tratto dietro di loro si aprì il portone del palazzo. Sadok iniziò a ridere mentre correva con le ruote in braccio perchè l’altro nel frattempo non si era accorto di niente. Quando l’altro tirò su la testa vide Sadok dall’altra parte della strada che si sbrigava a caricare le ruote sul furgone, mentre sul suo lato del marciapiede c’era un signore anziano che ancora non aveva afferrato cosa stava succedendo. Osservava la macchina poggiata su tre crick. Solamente un altro istante e il lavoro sarebbe stato portato a termine perfettamente, invece furono costretti a prendere la terza ruota di corsa e scappare solo sotto gli occhi dello spettatore incredulo. Dopo la sudata dovevano iniziare di nuovo a cercare un’altra auto come quella. Mentre Sadok guidava il furgone cercando una nuova auto da colpire, lui si divertiva a crepare i parabrezza delle auto parcheggiate al bordo della strada, tirando con violenza i bulloni, messi in tasca, dal finestrino in corsa. Ridevano e quanto ridevano, insieme si divertivano tantissimo, un divertimento che andava a discapito di molti altri. Guidando Sadok fumava una canna che aveva tirato fuori da un pacchetto di sigarette, l’aveva girata nel pomeriggio e se l’era dimenticata per quanto era ubriaco. L’altra macchina era stata avvistata, a dir la verità erano due le macchine avvistate, una la 600 mentre l’altra che gli stava di fronte era una Panda, perfetta data l’assenza di antifurto. Inoltre insieme al crick, fortuna loro, dopo averla aperta avevano trovato anche il portafoglio del malcapitato padrone che oltre a sessanta euro conteneva al suo interno nella taschina delle monete un blister vecchio e logoro, ma con ancora ben quattro Roipnol dentro. Gioia, felicità e scalpore. Mangiarono immediatamente gli psicofarmaci senza pensarci due volte e ripartirono all’attacco, proseguendo il lavoro. Il padrone dell’automobile molto probabilmente doveva essere un altro tossico o tutt’al più un povero malato di testa, loro preferivano credere all’ipotesi del fattone, sicuramente si sentivano molto meno in colpa vedendola in quel modo, anche se poi di colpa non è che ne sentissero tanta in generale. Il viso del nostro amico era ormai deformato dalle sostanze, la bocca restava spalancata con una mascella sempre più calante e gli occhi erano sempre più chiusi e sempre più rossi.
Nonostante tutto, i due erano di nuovo impegnati nello svitare i bulloni e nel sollevare la macchina. Veloci, erano molto veloci. In men che non si dica la ruota veniva di nuovo sfilata e caricata all’interno del furgone da battaglia, se il principale di Sadok avesse saputo che prendeva il furgone della ditta tutte le notti di sicuro non avrebbe tardato a licenziarlo, ma fortuna per lui, il magazziniere che guardava anche il garage della ditta era uno tranquillo, quindi gli reggeva il gioco, ricevendo in cambio un po’ di fumo.
Stavano ripartendo, quando il tunisino disse all’altro di riscendere per riprendere il crick, perché gli sarebbe di sicuro servito ancora, lui non se lo fece ripetere due volte, aprì lo sportello e via giù in strada un’altra volta. Girava la manopola rapidamente, ma lo strumento che era stato messo male da principio si sfilò di scatto da sotto l’auto e questa cadde in terra facendo un grande rumore. L’antifurto iniziò a suonare, mille finestre si illuminarono e mille facce si affacciarono tutte insieme. Ma gli occhi assonnati dei condomini non furono così svelti da poter veder la sagoma del mezzo che si allontanava sotto gli alberi, ne per sentire le risa che si trascinavano dietro i due pazzi per le strade deserte della capitale. Al bordo della strada, vicino al marciapiede rimaneva la sventurata macchina, priva di una ruota, che piangeva come un bambino a cui erano state tolte le caramelle. Il rumore dell’antifurto era sempre più distante come il pericolo, ancora una volta era andato tutto per il verso giusto, o almeno per adesso così sembrava. La mano di Sadok si staccò dal volante e si poggiò sullo stereo che venne acceso, il laser colpì il Cd e la musica iniziò, avevano finito, si stava facendo giorno e potevano andarsi finalmente a riposare.




Capitolo Sei.

Amara Sorpresa.


Le ruote sbattevano tra di loro, buttate dietro al furgone, facevano rumore, ma era un rumore piacevole per le loro orecchie. Rumore di vittoria, rumore di successo. Le mani lerce, sudice di grasso e di sporcizia erano entrambe sporche. Dovevano lavarle. Dirigevano verso Santa Silvia una zona nei paraggi di via Portuense. Guidavano verso il mercato alla ricerca di una fontanella. Volevano lavarsele tutti e due. Erano così sporche che era passato molto tempo dall’ultima volta che avevano potuto poggiarsele addosso. Il nasone spruzzava acqua tutt’intorno, gli schizzi riempivano di pois scuri le loro scarpe. Messe le mani sotto il gelido flusso d’acqua, ci vollero varie strofinate prima di vederle tornare ad un colore sufficientemente pulito, normale. La sporcizia scivolava via nella fessura nel suolo, scivolavano via così quelle poche tracce che li collegavano al lavoro fatto durante la notte. Un prurito tremendo lo affliggeva ormai da diversi minuti. Il sole con i suoi raggi stava ormai già illuminando tutti i palazzi intorno a loro, al mercato si iniziavano ad allestire i banconi. Non resisteva più, doveva assolutamente grattarsi, e lo fece. D’un tratto la sua faccia sbiancò ed  una smorfia  di stupore e domanda si poggiò violentemente su di lei. Grattandosi il didietro, alleviando il violento prurito si era spiacevolmente accorto che decisamente c’era qualcosa che non andava. Iniziò a fare mente locale e partì con un check up personale. Si sbatteva le mani addosso, rovistava e tirava fuori tutto ciò che aveva nelle tasche. C’era qualcosa che mancava all’appello. Precisando che per lui il check up consisteva nel controllare se avesse con se chiavi, portafoglio con soldi, cellulare e documenti, si era accorto che qualcosa tra queste era scomparsa, qualcosa non tornava all’appello. Il portafoglio! Il portafoglio con i soldi, documenti e ketamina non c’era! Era sparito! Come cazzo era successo? Non gli sembrava vero, nell’arco di un secondo i suoi pensieri iniziarono a bussare alla porta della preoccupazione, la preoccupazione più buia. Le macchine che avevano aperto erano innumerevoli, le volte che avevano dovuto correre anche. Il panico iniziò a farsi più visibile nel momento in cui comunicò la spiacevole notizia al compagno  che non fece tardare una serie di insulti per l’amico, insulti che di certo non lo stavano aiutando assolutamente. Immediatamente risalirono in macchina e si diressero verso tutte le auto che li avevano visti introdursi al loro interno nel corso della notte. Le scuole iniziavano ad aprire i cancelli, i negozi tiravano su le serrande e loro dovevano tornare su tutti i luoghi delle loro malefatte, sotto gli occhi dei passanti freschi e riposati dopo il riposo notturno. I mille frammenti di vetro scricchiolavano e stridevano sotto i loro piedi e sederi quando poggiavano su di loro, le auto ne erano ricoperte. La gente sui marciapiedi li osservava mentre imprecavano ad alta voce facendo finta di essere i diretti interessati e proprietari delle vetture danneggiate. Il numero delle macchine diminuiva di volta in volta dopo che le visitavano di nuovo una ad una, ma niente da fare, il portafogli non saltava fuori. Qualcuno doveva averlo già trovato e adesso molto probabilmente una volante della polizia si dirigeva verso casa sua con i suoi genitori ancora a letto a dormire. Il giro fatto a ritroso era terminato e non aveva dato esito positivo.
-        Che cazzo faccio mò?-
-        Non so veramente che ditte, che voi fa? Dimme te.-
-        Eccheccazzo ne so io, già me vedo que’e facce da cazzo davanti a mi padre che je chiedono ndo sto…-
-        Senti a sto punto me sa che è mejo se te porto a casa-
-        Naa, io così nce torno mica… Senti che faccio, cori vola ar commissariato a piazzale dea radio che me vado a fa na bella denuncia…-
-        Dici? E se quelli so già nnati?-
-        E se quelli so già nnati me la pijo n der culo, e scatta a villeggiatura… Però se non lo hanno trovato, je dico che quarche fijo de na mignotta me lo ha fottuto e me tutelo a mestiere…-
-        Fa come te pare, io te ce porto, daje nnamo de corsa…-
Il furgone sfrecciava, slalomando tra le altre macchine in fila, correvano verso il commissariato e lì lui avrebbe scoperto in prima persona se il fato gli era stato avverso più di quanto non lo fosse già stato.
Il furgoncino si accostò al bordo della strada i due si scambiarono un’occhiata che non presagiva niente di gradevole.
-        Ahò io vado, me sa che te forse è mejo se te dai, non se sa mai che questi vengono pure a vede se sto co qualcun altro…-
-        Daje, n bocca al lupo allora-
-        Crepasse sto stronzo de lupo, ‘ccisua!-
L’amico gli sorrise e con un cenno della testa lo congedò. L’altro adesso con aria cupa si avvicinava alla svelta un passo dietro l’altro verso il portone del commissariato. Prima di entrare si accostò ad un secchione dell’immondizia e senza farsi notare da anima viva poggiò il resto degli stupefacenti, nascondendoli, non voleva portarli con se. Pensava a quanto fosse stronzo. In più d’una occasione i suoi cari glielo avevano fatto notare negli ultimi tempi ma era proprio in questi momenti che se ne rendeva pienamente conto.
Avrebbe seriamente voluto darsi una botta di roba prima di entrare, ma decisamente non era quello il momento per fare certi pensieri, doveva inventare la storia da raccontare. In men che non si dica aveva fissato i punti cardine del racconto, ora si sentiva più sicuro. Il sipario si stava alzando e i riflettori erano puntati tutti su di lui. Era la stella di quello show e doveva brillare come non avesse mai  fatto prima.
Il citofono suonò.
-        Sono qui per fare una denuncia di smarrimento o di furto non ne sono proprio certo…-
La porta si aprì e si richiuse alle sue spalle. L’agente all’entrata indicò dove fosse l’ufficio che gli serviva. Salì le scale fino al secondo piano, ufficio denunce. Bussò alla porta una voce sgraziata rispose acconsentendo all’ingresso. Girò la maniglia e si affacciò sulla camera. Dentro sedevano due poliziotti alle rispettiva scrivanie. L’ufficio era molto squallido, grigio e i poliziotti al suo interno non aiutavano a dar colore con quelle facce. Le scrivanie era colme di pile di fogli fotocopiati, lastre bianche ricche di scritte nere, erano ovunque, sembravano quasi come colonne per quanto erano alte. Gli agenti lo inquadrarono subito male con lo sguardo, analizzandolo da cima a fondo. Il più grosso dei due gli fece cenno di sedere. Lui s’accomodò sulla sedia posta di fronte alla scrivania e iniziò la recita.
Quella sera era stato prima a Trastevere a cena, specificando il nome del ristorante ma fino lì tutto bene, dopo il pasto serale aveva deciso insieme alla sua ragazza ed ad un’altra coppia di andare a ballare in discoteca e proprio lì dopo l’ingresso e dopo aver pagato l’entrata e la seconda consumazione si era visto sprovvisto del suo portafogli nero di pelle, contenente 200 euro e documenti, tra cui patente, codice fiscale e patente B di guida. Date le generalità incrociò le dita e il destino volle che non risultasse nulla. Il computer non dava nessun tipo di riscontro. Nessuno aveva denunciato il danneggiamento di una macchina o furto di ruote menzionando il suo nome. Nessun reato lo riguardava ne da lontano, quanto meno da vicino, il sorriso già stava tornando ad arricchire le sue guancie bianche. Firmati tutti i fogli e carte varie uscì vincitore dal commissariato dopo soli pochi minuti, arricchendo quelle pile di fogli simili a  colonnati. Riaccese il telefono comunicò a casa che stava ancora in giro e che stava per rientrare,  ma non sarebbe rientrato se prima non avesse di nuovo visto Sonia. Chiamò un taxi. Il taxi arrivò e salì.
Il taxi percorso il tragitto da lui descritto si parcheggiava sotto casa di Sonia, sceso raccomandava al tassista di aspettarlo, e che entro breve sarebbe sicuramente tornato, pagò la prima parte dell’importo e si diresse verso il portone che lo divideva dal premio che sentiva d’aver meritato dopo tutto quel terribile trambusto imprevisto.
In quattro e quattro, otto raccontò la vicenda alla ragazza che non potè che mettersi a ridere.
-        Tu sei tutto matto!-
-        No, io so scemo proprio!-
Si scambiarono un bacetto e risalì sul taxi dopo aver sceso le scale del palazzo.
Si era accomodato sui sedili posteriori in pelle della Mercedes bianca che lo scarrozzava per la città. Guardava fuori dal finestrino mentre l’eroina gli tornava in circolo e lo cullava in quel limbo provvisorio che amava tanto. Guardava i genitori in ritardo affaccendati con i bambini piccoli da portare a scuola, guardava la gente comune che si dirigeva sempre più distrutta verso il lavoro, il lavoro di una vita. Queste scene lo facevano riflettere e pensare ad un futuro in cui lui si sarebbe dovuto trovare in quelle situazioni, niente di più lontano per lui in quel momento, con la vita che conduceva. Un giorno prima o poi tutta quella giostra che era la sua vita sarebbe dovuta finire, ma in che modo? Non ne aveva idea. Lasciava correre le giornate, e scorrere il tempo e questo lasciarsi andare lo faceva sentire sempre più diverso, diverso da quella che era la società normale. Fingeva e si costringeva a voler passare per uno di loro, ma era completamente consapevole del fatto che non era assolutamente come loro. Viveva due vite, due facce della stessa medaglia, il giorno lo vedeva composto nella farsa di una faccia pulita e tranquilla, ma la sera quella faccia era stravolta dalle situazioni, dalle persone  che frequentava e dalla droga che assumeva. Il circo degli eventi, era così che immaginava la sua vita, come un circo fatto di conoscenze, di numeri, cifre, di polveri e di racconti, tanti racconti. I racconti delle sue vicende avevano accompagnato le serate di molte persone, sapeva intrattenere il pubblico, il suo pubblico, il suo show. Viveva in un film? Sua madre era convinta che ormai fingesse una parte, era diventato un personaggio, ne era sempre più certa. Per il genitore ovviamente era così, perché questo vedeva solamente la parte diurna di lui, invece quella celata, la parte nascosta non la viveva mai dal vivo, ne poteva conoscere giusto gli strascichi, strascichi sempre più frequenti che venivano a minare la tranquillità dell’altra identità parallela, quella che conduceva a casa e in famiglia. Le denunce, i pericoli, le risse, le fughe, i treni, le scritte, la droga e i soldi, per quanto cercasse di nascondere, venivano sempre più allo scoperto. Non era possibile gestire questo flusso incontrollabile di eventi che gli turbinavano contro portandoselo via, portando via la persona che era sempre stata prima di tutto questo. A casa non si viveva più bene, il pensiero di quello che poteva fare quando era fuori in giro, turbava tutto il nucleo famigliare, le preoccupazioni di uno si riversavano sull’altro e quelle dell’altro su l’altro ancora, l’unico che non viveva poi così tanto questo supplizio era proprio lui perché a casa non ci stava praticamente mai. Usciva il giovedì dopo pranzo e tornava anche il lunedì sera delle volte. Letteralmente spariva, si eclissava, ovviamente si eclissava, per il fatto che non poteva svelare le condizioni in cui sempre più spesso versava. Si nascondeva, saltava dalla casa di un amico a quella di un altro, in un continuo via vai senza fine. Il tutto sembrava veramente essere senza fine.



Si era addormentato, il troppo pensare lo aveva stravolto. Il tassista proseguiva la sua corsa ormai senza le sue indicazioni. La macchina scivolava per le strade sull’asfalto bagnato, il riflesso delle finestre dei palazzi sul finestrino sembravano guardarlo. Quelle persone, quei visi affacciati sui loro davanzali lo guardavano, ma restavano indifferenti, come molte delle persone che lo circondavano, nessuno di loro si interrogava sul perché di tanto odio verso la serenità, di tanto odio verso una vita come le loro. Era solo, sempre più solo in un oblio di confusione. Quando riaprì gli occhi, le prime gocciarelline di pioggia si stavano posando su quel finestrino che rifletteva il fantasma di una vita per lui così distante. Si guardò intorno non capiva dove era. Poi riconobbe il colore inconfondibile del tetto del suo palazzo, si diede una scrollata e si riacciuffò. Il tassista comunicava il prezzo della corsa, che lui non si fece mancare di pagare. Il taxi l’aveva riportato a casa. La sua macchina era ancora in giro, pensò che la sarebbe andata a riprendere in un secondo momento, se ne era completamente scordato. Salutò il tassista, aprì il portone e salì le scale verso la sua dimora. Ancora una volta era tornato, tornato alla base sano e salvo.



Capitolo Sette.

Palazzetti & Rave.


Guardava dritto davanti a se, poggiato con i gomiti sul davanzale del suo balcone, il sole splendeva alto nel cielo, era una bella giornata, di nuvole non se ne vedeva nemmeno l’ombra, almeno di nuvole in cielo perché di nuvole che ottenebrassero la sua mente e pensieri all’orizzonte se ne vedevano molte. Il pensiero del suo portafoglio in giro chissà dove non lo faceva stare bene, si chiedeva continuamente chi mai l’avesse trovato e sperava ardentemente che chi l’avesse trovato avesse scambiato la ketamina al suo interno per cocaina e che adesso gli fosse preso un accidente, un accidente innocuo, più che altro almeno una bella mezz’ora di spavento. A casa era solo aspettava che sua madre e suo fratello tornassero dal lavoro. La mattina stava bene a casa proprio perché non c’era nessun’altro, non che avesse niente contro il resto della famiglia, ma forse era il resto della famiglia che evidentemente non sosteneva più il ritmo delle sue stronzate continue. Sua madre non faceva altro che ripetergli “ Quand’è che la finisci? Quand’è che smetterai? Ancora non ne hai abbastanza?”… Questa parole non facevano che risuonargli in testa da un orecchio all’altro, ne era esausto ma sapeva anche benissimo che non era assolutamente ancora abbastanza e di conseguenza sarebbe dovuto ancora sottostare per molto a questo forcing ammorbante. In realtà l’unico vero morbo per la serenità del nucleo famigliare era lui e ne era completamente consapevole. Dall’episodio dei cerchioni in lega erano passate settimane e la situazione economica ristagnava in un continuo indebitarsi da uno spacciatore all’altro per coprire i danni che continuava a fare e che non era più bene in  grado di coprire. La sua credibilità come trafficante veniva offuscata dal suo aspetto sempre più emaciato e dai racconti che venivano sempre più spesso fuori. Roma per quanto grande è sempre un paese e una notizia o racconto che sia che fa scalpore non fa altro che passare di bocca in orecchio, da orecchio in bocca con il risultato che la realtà da principio viene completamente stravolta con situazioni sempre più paradossali e numeri sempre più grandi, quindi nell’arco di poco tempo va a finire che tutti sanno tutto di te e che in realtà non sanno niente di niente.
Ripensava tante volte a come avesse cominciato tutto quanto, la prima canna che si fece durante un’occupazione a Monteverde nel liceo classico Manara e da lì iniziò subito a rifornire di spinelli quei pochi bambini che fumavano canne alle medie nella scuola dove andava, non si trattava assolutamente di spaccio era più che altro un favore che faceva a quelli che desideravano fumo e che non sapevano dove procurarselo, fumavano canne tutti quanti insieme. Finite le medie proseguì gli studi andandosi a segnare in quel liceo dove tutto forse ebbe inizio, non perché lì avesse trovato canne ma perché voleva allontanarsi dal suo quartiere di periferia per spostarsi in uno più centrale e poi quello era anche il liceo di suo padre.
In quella scuola stravolse completamente tutte le sue amicizie, le persone con cui aveva affrontato gli anni delle elementari e medie vennero completamente tralasciate, quasi scordate, sostituite da quella ciurma di personaggi con cui iniziò poi a fare graffiti ed altro.
La sega a scuola che non aveva mai sperimentato durante gli anni delle medie per gli anni delle superiori divenne un “Must”, le mattine che la scuola veniva marinata erano innumerevoli rispetto a quelle in cui si entrava sino al punto in cui poi si andasse a rischiare la bocciatura, cosa che infatti in seguito non si fece mancare.
La mattine spesso venivano occupate con l’attività più redditizia che avessero inventato, almeno durante i primi due anni di ginnasio, ed era qualcosa di veramente geniale e perverso, si andava tutti insieme a fare i così detti “Palazzetti”.



L’attività dei palazzetti era scaturita dalla possibilità di potersi travestire da scout della chiesa, visto che molti dei suoi nuovi amici avevano militano tra le loro fila per così dire, quindi ci si metteva un cravattone verde e giallo intorno al collo e si entrava in chiesa per andare a rubare più opuscoli e foglietti possibili perché da lì a breve ci si sarebbe introdotti all’interno di condomini per chiedere soldi porta a porta millantando di raccogliere donazioni in favore di missionari e poveri o quant’altro gli venisse in mente, ad ogni banconota ricevuta loro ricambiavano con un opuscolo che come sempre non centrava niente con l’argomento per cui dicevano di raccogliere denaro, poi il tutto veniva condito con una dose di sfregio e vandalismo becero. 
Gli “sfregi” così definiti consistevano in una serie di azioni deplorevoli ma molto divertenti, se non altro per loro, si iniziava col pisciare e cagare a turno negli ascensori del palazzo, sotto natale invece, arrivati all’ultimo appartamento in successione tra i piani, dopo aver ricevuto i soldi dall’inquilino di turno, a quest’ultimo gli venivano sparati Magnum(botti di capodanno) all’interno della casa con lui ancora presente e incredulo  sulla porta aperta, inutile dire che la colluttazione scattava ogni volta; ma la cosa che lui preferiva era raccogliere dai pianerottoli i vasi e portarli all’ultimo piano per lanciarli dalla tromba delle scale, la cosa esilarante era che ovviamente poi bisognava riscendere e fare a botte con i coinquilini del pian terreno perché accorrevano fuori dalle abitazioni per via dell’incredibile boato e vedevano questa folla di bambini/ragazzi urlanti che correvano giù di corsa per le scale.
I palazzetti erano redditizi si guadagnavano soldi con cui poi si andava a comprare il fumo da usare durante tutto l’arco della mattina.
Da lì a breve si iniziò ad uscire il sabato sera ed ad andare a quelle feste dove erano sempre più spesso ospiti indesiderati, infatti spesso ci si doveva imbucare scalando un balcone o magari ricattando qualcuno che stava all’interno per farsi aprire il portone del palazzo e poi la porta. Erano indesiderati soprattutto perché poi all’interno dell’appartamento le azioni di cui si macchiavano andavano a seguire molto l’iter perverso dei palazzetti, si rubavano vestiti e videogiochi, si scriveva con i pennarelli sulle pareti dei salotti e camere, si otturavano vasche da bagno con carta igienica le quali venivano poi riempite di piscio e cacca, la lista degli sfregi era tra le più varie.
Lui e il suo gruppo di amici in quegli anni non erano affatto visti di buon occhio tanto che delle volte si andarono a rischiare anche denunce.
Durante quegli anni la scena dei rave romani era al suo apice, quelli erano gli anni della Fintech di Castel Romano, quindi poi passato il periodo delle feste in casa si passò al periodo delle feste illegali. Ogni fine settimana era costretto quasi a scappare di casa anche perché non si usavano ancora tanto i cellulari e così i suoi genitori lo perdevano di vista per un lasso di tempo molto lungo per un ragazzo di appena 14-15 anni. Ai rave iniziò il periodo delle droghe sintetiche acidi, Trip, anfetamine, Speed, MDMA e pasticche, questi erano gli ingredienti con cui condire il sabato sera e la domenica mattina. I rientri a casa la domenica a pranzo o nel primo pomeriggio erano degli impatti micidiali, il ritorno in società e il ritorno in famiglia era un qualcosa di veramente pesante, si ricordava le volte che dimenticava le chiavi di casa e di conseguenza non poteva sgattaiolare in camera a dormire di corsa e veniva la madre ad aprirgli la porta… “Guarda che faccia  che hai!, Guardati fai schifo!, Ma non ti vedi! Non ti si può guardare!, Dove sei stato!”… Il suono di quella voce e di quelle parole pensava che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Il rapporto con sua madre era sempre stato dei migliori, ma da quegli anni in poi si andò sempre più incrinando, anche se durante quelle stagioni e il periodo che ci riguarda più da vicino in realtà non avessero mai smesso di volersi bene e di riuscire a passare anche dei momenti di estrema serenità. Spesso capitava infatti che quando tutta la famiglia si riuniva insieme a tavola per alcuni istanti ci si dimenticasse di tutto il disastro alle spalle e si ritornava come d’incanto a quegli anni più spensierati. Per quanto le due parti siano divenute poi avverse, lui e la madre sono sempre stati veramente molto simili, il modo di parlare, il modo di scherzare e il modo di fare battute si somigliavano molto e del resto poi si poteva anche notare quanto lui fosse il ritratto sputato della madre al maschile con giusto qualche vizio in più.
Per quanto spericolato e infervorato nelle sua imprese malsane, non sopportava chi dei sui amici trattasse male i genitori in modi denigratori o chi addirittura li caricava di  tutte le cause dei loro mali, aveva sempre avuto una sorta di etica in cui sapeva che i suoi genitori avevano ogni qual volta ragione e di conseguenza difficilmente si permetteva di ribattere quando veniva sgridato, d’altro canto pensava che di sicuro erano loro a soffrirne in modo molto più evidente del suo, quindi non vedeva motivo per il quale dovesse anche stare a discutere di cose e cause di cui era il solo e unico fattore scatenante.
Gli episodi che i rave gli riportavano alla mente erano veramente innumerevoli, anche perché gli anni dei rave furono lunghi abbastanza e non passarono di moda così alla svelta, di sicuro lo accompagnarono per tutti gli anni delle superiori. Dai rave romani, si passò ai rave in giro per l’Italia, soprattutto al nord, poi l’estate e durante le feste natalizie con i capodanni si partiva anche per i Teknival all’estero e là le feste duravano anche settimane di filato, nascosti in capannoni abbandonati o in qualche valle riparati dal bosco, Spagna, Francia, Olanda, Inghilterra e Germania. Erano gli anni dell’InterRail, con pochi soldi ti facevi un biglietto per girare indisturbato in più aree dell’Europa pagando a prezzi ridotti quei treni che non erano completamente gratuiti, un po’ di soldi da parte dei genitori, un po’ li mettevi tu e si partiva carichi di Ketamina e spesso anche con pasticche e fumo. Ogni Teknival equivaleva ad una sosta con smercio di stupefacenti all’arrivo e durante e rifornimento di nuovo alla partenza, perché poi ti sarebbero serviti a sopravvivere durante il viaggio. Il rischio c’era, si passava molto spesso in tante stazioni ma lui in quel periodo preferiva vendere Ketamina proprio perché ancora non era classificata come stupefacente, quindi dal punto di vista legale non eri perseguibile, tutt’al più un foglio di possesso di farmaco senza ricetta.
Durante gli anni ’90 si stava sicuramente meglio, leggi meno pesanti e poi c’era ancora la Lira fedele compagna nei più bei ricordi di ogni italiano. Con in zaino una padella, un fornelletto da campeggio e qualche scheda telefonica per grattare(poi le schede italiane sono sempre state le migliori invidiate da tutti), ti potevi permettere una bella vacanzona di un mese in giro per il continente senza troppi pensieri. Spesso si dormiva per strada quando il luogo e il tempo lo permetteva, in ogni paese in cui entravi dovevi iniziare a rifarti tutti i conti per il cambio, tutto costava meno e tutti sapevano meno, i rave non erano visti ancora così tanto di cattivo occhio, i cellulari non erano rintracciabili e poi chi più ne ha più ne metta, di sicuro ci si poteva divertire più di quanto non lo si possa fare adesso, ma poi come tutto d’altro canto anche gli anni dei rave pian piano finirono, la scena si andava sempre più diradando e le persone dei rave che lui frequentava anche un po’ alla volta smisero sempre più di andarci e così dai rave poi si passò agli afterhours, discoteche e Crack.
In questa rapida successione d’eventi ricostruiva quella mattina il suo percorso legato al mondo della droga giovanile, tralasciando il fatto che intervallava il tutto con dei periodi di writing serrato come valvola di sfogo dalla droga. I periodi che decideva di allentare un po’ la presa dalle dipendenze si dedicava anima e corpo allo scrivere, ai treni, pennarelli, metropolitane e Roma.
Stava iniziando a tornare indietro con la mente ancora una volta quando un suono lo interruppe d’un tratto, la chiave stava girando e la porta di casa si stava aprendo, sua madre era tornata a casa come al solito per il loro pranzo tète a tète.
-        Ah mà? Sei te? –
-        No, è ‘a polizia! –
-        Ahahaha! E sì, ce mancano pure loro… -
-        E infatti tanto noi non ci facciamo mancare niente! –
-        Madò! Sei monotematica però… -
-        Ah, sarei io quella monotematica ve? –
-        Mmmmmm, che palle! Com’è andata oggi? –
-        Come ieri e l’artro ieri, invece te che hai fatto stamattina? Te sei appena alzato? –
-        No, veramente me sò alzato già da ‘n po’… -
-        E immagino che sarai stato in miniera, apparecchia va che io mi cambio, ho preso la carne. –
-        Bona! Vabbè, dai vado ad apparecchià… -.




É Tutto a Posto.

Capitolo Otto
Compagni per una Notte.


- ‘O sai che m’hai popo rotto ‘r cazzo! -
- De che? -
- De tutte ste telefonate, de tutti sti conti, de sti sordi, de tutti l’impicci che fai e dello stronzo che sei! -
- ‘N te ce mette pure te mò però! -
- Hai rotto r cazzo! ‘N gliela faccio più a vedette così, stai sempre imparanoiato, fai solo conti e parli solo de sordi, basta cazzo! -
- Ma che devo fa, me mancano dei soldi, ho fatto quarche cazzata, mò se rimedia, damme r tempo, però… -
- Me pare d’esse tornata a quanno te cercava quer mezzo zingaro cattivo -
- Hahaha, te ricordi che tajo! -
- Ma che tajo, n se sa che ansia, no che tajo! -
- Che telefonava a casa e non sapeva che c’ho n fratello, je rispondeva lui e se credeva che ero io che lo cojonavo… hahahaha! Poraccio mio fratello n se sa le minaccie che je diceva… -
- Hahhaha… E’ vero me l’ero scordata sta cosa! Uahuhauhuaua! -
- Comunque non so più che fa, questi me stanno pure a venì a cercà sotto casa, mi madre m’ha detto che m’è venuto a cercà qualcuno e che sto quarcuno non j’è piaciuto pe niente ar citofono, non j’ha manco voluto dì r nome, dice n’amico, ‘cci loro! Pezzi demmerda, pe n ritardo de n poco più de mille euro! Co tutti li sordi che j’ho sempre portato, bastardi! -
- Lo sai come so fatti quelli, finchè ungi bene, poi come stai n’attimo a secco, boom! Come niente te li ritrovi sotto casa! –
- ‘R problema è che non me stanno più a fa lavorà come prima… -
- E ce credo, pe come te stai a comportà, ringrazia Dio che ancora cammini co le gambe tue…-
- Esagerata! Mò pe n periodo che gira n po’ così… -
- Non è ‘r periodo, sei te che sei n po’ così… “sto periodo”! –
- Pure te c’hai ragione, quanno inizio a fumà, me vorei mette le manette e legame ar termosifone, cazzo! –
- Vai fori de testa, non te se po’ più guarda! –
- Me sà che dice bene Marco, l’artra vorta m’ha detto che come l’ho fatti inizià a fumà tutti io, j’ho fatto pure passà ‘a voja a tutti quanti! – Sì, me sa che r quadro lo riassume alla perfezione, vedi che se pure Marco te sta a dì ‘na cosa der genere, me sa che allora stai messo peggio de quello che fai vede… -
- Ma che stai a dì, lo sai che pe te so cristallino… -
- Sì, giusto cristallino… -
- Ma che scherzi! –
- Scherzo, scherzo, comunque ‘n va bene così… -
- Lo so, lo so che ‘n va pe niente bene, non me lo dì a me… -
- No, ‘nvece lo dico proprio a te! –
Passavano i giorni e la situazione non faceva che precipitare, i pensieri lo gravavano parecchio ed ogni sera per evadere da un peso che lo accompagnava costantemente durante il giorno, tornava a commettere sempre lo stesso errore. Ogni sera cucchiaio, bicarbonato e si ripartiva sempre da capo, la sostanza friggeva nuda bagnata sulla superficie d’acciaio cromato del cucchiaio che sotto il fuoco della fiamma non poteva far altro che annerirsi. La macchia di nero sui cucchiai di casa era un qualcosa di indelebile, il solo guardarla lo faceva sentire proprio come quel cucchiaio, nero sporco e macchiato con un qualcosa di indelebile, un sapore indimenticabile in bocca che ti accompagna per tutta la vita. Delle volte durante la giornata gli saliva da dentro uno schiocco di tosse che gli faceva tornare in bocca quel sapore di plastica dolciastra che ti lascia la cocaina sulla lingua e sui denti, denti che pian piano risentono delle sostanze chimiche di cui è bagnata e tagliata la polvere bianca sudamericana, denti che si piegano e poi spezzano sotto il costante effetto della densa nuvola malsana che soffi fuori.
Claudia era sempre più stanca e sottoposta ad un continuo forcing mentale e fisico, lui la faceva preoccupare e lei lentamente iniziava a non vedere più un’uscita possibile. Le continue scuse, i continui ritardi i continui rinvii d’impegno la facevano soffrire, ed iniziava a risentire molto di quel logoramento interiore. Tante volte la sera cercava di dissuaderlo da quella catena di montaggio che metteva su ogni qual volta si poteva un momento sedere su una sedia in una camera con la porta chiusa. Gli atteggiamenti di lui, durante la fase di cottura e soprattutto postumi a quella, iniziavano a diventare seriamente preoccupanti, era in costante frenesia, non riusciva e tenere gambe e mani immobili tremavano vistosamente, anche le sue capacità verbali risentivano parecchio dell’effetto della sostanza, quasi era  costretto a smettere di parlare tanto gli tremava la voce, senza poi elencare le innumerevoli volte in cui si convinceva che ci fosse qualcun altro dentro casa o addirittura dietro la porta che origliava, guardava fuori dalla finestra per paura che la polizia potesse arrivare in qualsiasi momento, si accasciava a cercare per terra pezzi di cocaina cotta persa durante il corso della notte anche se di cocaina non ne fosse mai caduta una singola briciola. Il tutto iniziava ad essere seriamente preoccupante ed imbarazzante in altre situazioni, la discesa imboccata era scoscesa e ripida ed era difficilmente possibile invertire la direzione di marcia.
Lui di tutto ciò, si rendeva conto solamente appena l’effetto della giostra mortale scendeva, appena finito il giro si guardava allo specchio e si chiedeva cosa mai stesse succedendo e perché mai non la smettesse, ma ogni sera si andava a cercare un nuovo compagno di giochi e la partita aveva di nuovo inizio. Molte delle volte si accollava anche personaggi che non gli erano assolutamente congeniali e li incastrava offrendo loro serate ai limiti del possibile che con le loro semplici finanze non si sarebbero mai potuti permettere. Poi ad un tratto quando le rocce rimaste iniziavano a scarseggiare, percepiva un reale distacco da chi in quel momento si trovava con lui e pensava perché mai? Perché mai? Il rimorso era forte in quegli istanti, il rimorso per le sue azioni, il rimorso per come la sua faccia gli appariva di fronte allo specchio, ma col tempo invece che decidere di smettere di continuare, aveva iniziato ad ignorare quel rimorso che lo faceva stare così male, durante quello star già male per la fine della sostanza non era buono starsi anche a commiserare per come ci si era ridotti.
Le dinamiche di ragionamento venivano sempre più spesso intaccate, smussate e poi stravolte, ormai il male di cui viveva era tale che per lui esisteva e basta ed era impensabile credere che quel male sarebbe dovuto cessare per una propria scelta.
Quella sera dopo essere uscito da casa di Claudia, come al solito era sceso verso Trastevere, S.Calisto, Vicolo del Bologna, Vicolo del Cinque e Piazza della Scala, il tour delle viette e vicoli si svolgeva come del resto quasi tutte le sere.
Durante questo periodo il solo anche girare per Trastevere ad ogni modo non lo faceva stare un gran che bene, lo stavano cercando e bastava solo questo pensiero per non farlo stare tranquillo, sapevano tutti quanti dove potessero trovarlo e di certo se non si fosse sbrigato a sistemare le cose prima o poi avrebbe fatto l’incontro che tanto non voleva fare. Quella sera non incontrò nessuno in particolare ma non aveva voglia di rientrare a casa a fumare così rimase in giro da solo a  bere saltando da un bar ad un altro. Si erano fatte quasi le tre di notte ed il S.Calisto era chiuso da un pezzo, era tornato verso la macchina che era parcheggiata in piazza perché anche “Il Bruschettaro” ultimo baluardo trasteverino stava per chiudere. Pippava le ultime botte di cocaina che gli erano rimaste stando seduto in macchina con un po’ di musica accesa, mentre se ne stava lì seduto in disparte passarono studentesse americane che avevano preso un appartamento in affitto da quelle parti proprio vicino la Lungara, trovandosi non molto distante dall’università americana. Non si accorsero sedendosi sul cofano della sua auto che lui stava piegato all’interno e quando si rialzò i loro sguardi si incrociarono, le ragazze ubriache attaccarono subito bottone e avvistando immediatamente le strisce bianche che risaltavano sul nero lucente del libretto delle istruzioni della macchina, non ci misero tanto a chiedere se avesse potuto fargli assaggiare quello che anche lui stava gradendo. Una dopo l’altra si piegarono sul sedile avvicinando la banconota arrotolata alla narice. Nello stesso istante in cui si svolgeva tutto ciò stava passando di là un altro ragazzo sulla trentina che notò subito il movimento e venne a chiedere se si poteva offrire qualcosa anche a lui. Lui gli spiegò immediatamente che purtroppo sarebbe dovuto arrivare un frazione di secondo prima per essere in tempo e che quindi sfortunatamente per lui non si poteva fare più niente.
La cocaina mischiata all’alchool lo faceva parlare molto e gli dava grande sicurezza, in quei momenti infatti diventava socievole anche con chi non lo sarebbe mai stato in altra situazione.
Il ragazzo chiese se lui sapesse per caso dove rimediare qualcos’altro, ma per un motivo o per un altro quella sera non gli riuscì di inventarsi niente di nuovo, l’altro così azzardò l’ipotesi di arrivare a Tor Bella Monaca visto che avevano l’auto, senza neanche ragionare per un secondo acconsentì immediatamente, liquidò le americane per cui secondo lui già avevano scroccato abbastanza per la serata ed in men che non si dica era in macchina con il primo sconosciuto raccattato per strada diretto chissà dove e chissà da chi a Tor Bella Monaca.




La macchina prendeva il raccordo, l’asfalto scivolava sotto i copertoni caldi della Golf, la strada era vuota e le prime luci dell’alba sembravano apparire dietro il disegno frastagliato degli alberi e colli all’orizzonte. L’altro indicava con cura l’uscita e le svolte da prendere e con il tempo che la sua lucidità raccattata al momento gli concesse riuscirono ad arrivare in borgata. Parcheggiavano l’automobile sotto il palazzone che gli si affacciava davanti, il bottone dell’antifurto una volta premuto fece fischiare l’auto accompagnando con la luce rossa sparata dagli stop le loro ombre che silenziose e furtive sembravano arrampicarsi sulla facciata di quella costruzione grigia e buia.
-        Te lo dico fa parlà a me che sta tipa e na zingara mezza ‘mpazzita! Sta mezza de fori dalle paranoie, comunque mò vedrai te  in che casa te sto a portà quindi me raccomando… -
-        Vabbè ok, ho capito ma manco m’hai detto come dovemo fa coi soldi, quanto vole questa? Te poi mica t’ho capito, ma ce l’hai qualche soldo? –
-        Ma io sto co ‘na decina de euri, ma comunque a me me conosce poi se te c’hai n po’ da spenne magari a me ce pensa lei… -
-        Se, se ho capito va… -
-        Ma che stai a scherzà? Guarda che a me po esse che mica me devi offrì niente, poi comunque dai che alla fine la dritta è mia, sennò rimanevi a piedi, no? –
-        Se, se giusto a piedi, daje salimo da questa và, vedemo de dasse ‘na mossa… -
Con il viaggio in auto gli era tornata un po’ di lucidità, quel poco che bastava per fargli pensare a la cazzata che stava facendo, ma d’altro canto ormai era arrivato sin qui e adesso non poteva di certo tornare in dietro a mani vuote.
Salirono queste scale anguste, zozze, su ogni gradino c’era almeno un dito di lerciume, misto a carte di caramelle e pacchetti di sigarette vuoti. Si fermarono di fronte ad una porta d’appartamento, la particolarità era che prima della porta, ossia nell’immediato spazio che la precedeva, era stato montato un cancellone in acciaio battuto con un spioncino, simile a quelli della farmacia notturna. I due bussarono ed aspettarono. Non si sentiva niente che venisse dall’interno della casa.
-        Ma che m’hai fatto venì fino qua e mò questa magari sta a dormì? –
-        Ma de che questa non dorme mai, aspè… -
-        E aspettamo… -
Ribussarono. Ribussarono ancora. Niente. Dall’appartamento non veniva fuori nessuno, e non si sentiva nient’altro che il vento che soffiava tra gli alberi fuori dal palazzo.
-        Senti, ‘namosene và, ch’è mejo! –
-        Aspè, aspè… -
-        Daje, basta accanna co sta cosa che qua magari ce se stranisce pure quarcuno, mica no… -
-        Te dico ‘spè, daje bono n’attimo… -
Si era stancato, ed iniziava a pensare che forse fosse anche meglio così, stava per rimboccare la tromba delle scale, quando un mugugno arrivò alle loro orecchie attente da dietro, l’acciaio e la porta.
-        Sò io, ahò sò io!- Il ragazzo bisbigliò poggiandosi con le braccia tra le fessure del cancello.
La porta finalmente si aprì. Un fiotto di aria calda investì i due che stavano ancora in piedi su quel pianerottolo freddo e buio. La luce inondò il pavimento sotto i loro piedi e nel mentre disegnò una sagoma nera sulla parete opposta a quella dell’ingresso che gli si era offerto, la sagoma era di una donna dall’età indefinita.
La signora, per così dire, era magrissima, le sue guancie erano completamente scomparse sotto l’influsso del tempo passato a succhiare penne a sfera, i capelli grigi e bianchi scendeva sul suo collo secco e rugoso, i tendini del collo erano ben visibili, perché di tanto in tanto si tendevano quasi allo spasmo, sembrava quasi si potessero spezzare da un momento all’altro. In dosso portava una di quelle vesti da signora anziana e casalinga, tanto che sopra ci aveva abbinato un grembiule da cucina allacciato in vita. Ai piedi portava delle ciabatte del mercato, di quelle con lo strappo sopra, come portavano i bambini negli anni ’80 e ’90. Sembrava effettivamente uscita da una frattura del continuum spaziotemporale, era molto stile Amore Tossico di Caligari, tanto per fare un esempio.
Il ragazzo confabulò qualcosa con la padrona di casa, poi si girò verso l’altro e tese la mano in segno di pagamento, l’altro con un cenno della testa e una lanciata di sguardo fece a capire se andava tutto bene e l’altro abbassò il capo in segno d’affermazione. I soldi passavano adesso di mano in mano fino a che non si infilarono nello spioncino e vennero scambiati con delle pallettine di plastica bianca.
Conclusa la transazione, scendevano le scale e tornavano in macchina.
-        Hai visto che era tutto ok? –
-        Tutto ok, tuto ok… - Ripetè l’altro in modo sarcastico.
-        Che c’è che non va? –
-        Niente, niente stavo a giocà, ‘nnamò ‘n macchina così sbragamo sta cosa e se ne potemo ‘nnà tuti a casa, daje n po’… -
-        Ma che vai de fretta mò? Famme capì… -
-        Più che altro è quasi giorno, vivo dall’altra parte de Roma e ancora stamo co sta cosa n mano che demo ancora solo inizià de scartalla, sai se se arzano i miei quelli chiamano e non me va de stalli a sentì pure oggi, speravo che facevamo prima, ma vabbè comunque lascia sta che tanto non sò cazzi tua… -
-        Daje che ce pensi dopo ai tuoi, mò assaggiamose sta cosa và ch’è ‘na cifra bona, mò vedi… -
-        Se, se… -
Montati in macchina i preparativi iniziarono nuovamente come sempre, schede alla mano, banconote nell’altra e via.
Pippavano e chiacchieravano, chiacchieravano e pippavano e all’incirca in un’oretta la condensa, che si era formata sui finestrini della vettura che li confortava, aveva fatto sì che i loro volti diventassero invisibili per le prime finestre che si iniziavano ad accendere là intorno e per i primi passanti che si piegavano all’aria gelida delle prime luci dell’alba. Finita la storia, i due si guardarono e senza neanche farlo a posta avevano già deciso di spostare di nuovo la macchina per tornare nuovamente sotto casa alla gentile presenza che li aveva accolti prima con tanto amore. Salirono di corsa ancora quelle scalaccie e si trovarono ancora di fronte lo spioncino, bussarono e questa volta la misteriosa e silenziosa presenza non tardò ad aprire addirittura invitandoli all’interno.
All’interno la situazione era non meno grottesca di come potesse apparire da fuori, l’appartamento era una sorta di monolocale con angolo cottura e lettone matrimoniale in mezzo alla stanza, in un angoletto dello stanzone era sistemato un tavolinetto decrepito, tra i più rimediati mai visti prima, talmente era storto che solo con la scoliosi avresti potuto finire un pasto seduto lì senza troppi dolori. Le pareti erano adorne di una carta da parati risalente grosso modo al paleolitico inferiore, sembrava di intravederci anche delle forme di graffitismo preistorico, figure ed immagini di caccia si accavallavano nella mente di lui mentre viveva quella situazione nata come per incanto da un incontro più che casuale. Sopra il letto a due piazze mille pallette di plastica buttate alla rinfusa ricoprivano buona parte della superficie del piumone da letto, inutile dire che la signora sul comodino aveva inoltre pronta una bottiglietta d’acqua appena modificata pronta a sostituire quella vecchia che gli stava accanto, era talmente nuova quella bottiglietta che quasi stonava con tutto il resto dell’appartamento, soprattutto con la padrona. Alla domanda del padrone di casa su quanto volessero i due risposero comprando altre due saccocciate, identiche per forma e peso alle precedenti, che consumarono fumandole insieme alla padrona di casa in men che non si dica.
Dopo circa tre quarti d’ora erano di nuovo pronti con le giacche adosso per scendere le scale e risalire in macchina scendendo in un silenzio quasi clericale.
-        Senti, ma te ‘n do abiti? ‘N do voi che te lascio? –
-        Ma a me credo che vada bene se me accanni al MacDonald sur raccordo… C’hai presente quello che sta verso l’Ardeatina? –
-        Sì, certo che ce l’ho presente, dico ma sei sicuro che voj che te accanno proprio là? –
-        Sì, perché che c’è de strano? –
-        Boh, che ne so me pare n posto n po’ der cazzo, no? –
-        No, no che me faccio venì a prende da qualcuno… -
-        Vabbè, se pe te va bene… Fa come te pare, io ‘n do me dici te lascio, anzi ch’è pure de strada, da paura! –
La strada fatta all’andata veniva ripercorsa minuziosamente al ritorno. Il viaggio fu accompagnato dalla radio che parlava senza che nessuno l’ascoltasse e da loro che non spiccicarono verbo sino al momento dei saluti. Come l’aveva raccattato, adesso lo faceva scendere da l’auto. Per una sera era come se fossero stati migliori amici da lunghi anni, in realtà nè a uno, né all’altro poteva fregare di meno del compagno. Durante tutto il corso della nottata non si erano mai chiamati neanche per nome, non aveva assolutamente importanza per entrambi. La macchina si riimmetteva nella corsia e proseguiva verso Roma sud-ovest. La figura di quel losco personaggio diventava sempre più piccola riflessa nello specchietto retrovisore che buttava uno sguardo alle sue spalle. Tornava verso casa, ma non voleva tornarci in realtà, era venerdì ed erano tutti svegli ed alzati impegnati nelle loro faccende di casa, lui invece faceva schifo, era impresentabile. Si accostò in un parcheggio nelle vicinanze di casa sua sbragò il sedile e chiuse gli occhi, quando li riaprì era di nuovo sera e faceva freddo da morire. Il cellulare senza suoneria aveva squillato tutto il giorno senza risposta. Scosse la testa in segno di negazione guardandosi nello specchietto retrovisore del parabrezza, si guardava e si chiedeva come mai, poi capì che forse era meglio non chiedere troppo, riaccese il motore, sgasò e questa volta diresse verso casa veramente.





É Tutto a Posto.

Capitolo Nove

Metro B



Le bombolette spray ad ogni curva che la macchina faceva tintinnavano rumorosamente, il suono metallico che producevano durante la guida gli metteva serenità. Gli spray erano buttati alla rinfusa nel portabagagli ed al minimo movimento brusco sbattevano tra di loro cantando allegramente. Prima le sentivi rotolare e poi scontrandosi una addosso all’altra, sembrava si divertissero come bambine in mezzo ad un prato, facendo più chiasso gli fosse possibile.
La settimana era stata una di quelle più tranquille dal punto di vista della salute ed al contrario una di quelle più rischiose dal punto di vista legale. Ultimamente era tornato a colpire i vagoni ormai distrutti della linea B di Roma. Tutte le volte che era stato in yard, dal deposito della metro era riuscito ad andarsene felice e soddisfatto del lavoro compiuto a termine. Che fosse la notte o mezzogiorno spaccato non faceva differenza, se stava in compagnia o da solo neppure, l’unica cosa di cui era veramente certo era che la voglia di scrivere era tornata e così stava dando sfogo alla sua sete di metallo e vernice. Il più delle volte a Magliana, il deposito più grande della linea B, si era costretti a scappare, i vigilantes vegliavano sul deposito con un certo accanimento ed il rapporto tra writer e guardie non era mai stato tra i migliori. Su quelle banchine non c’era volta in cui non si era costretti a darsela a gambe levate e così nel momento in cui si scavalcava la recinzione ci si metteva immediatamente in testa l’idea che finchè qualcuno di turno non si fosse accorto di te, si sarebbe rimasti dentro il più a lungo possibile, salvo quelle rare volte in cui si riusciva a terminare la vernice prima che qualcuno si mettesse a tirarti sassi o correrti dietro.
La frenesia, il piacere e la passione per quella disciplina sono difficili da spiegare se non le si hanno mai vissute di persona, ci sono una miriade di elementi che contribuiscono a rendere unica ed inimitabile quell’arte proibita. Le attese sotto al sole o al buio illuminati dalla luna, l’odore di un binario, aroma inconfondibile e il rumore dei sassi lungo i binari che scricchiolano e sfregano tra di loro sotto le suole delle scarpe più logore, l’adrenalina che sale con la consapevolezza di trovarsi in un luogo in cui è vietato l’accesso, le corse e fughe inseguiti delle guardie infuriate come non mai, gli spari di pistola, le pallottole che fischiano in aria e ti fischiano accanto, il calore sprigionato dall’asfalto bollente che deforma la tua visuale; si potrebbe proseguire per molto ancora, perché erano veramente innumerevoli le cose che lo facevano impazzire di quei momenti, ma forse la cosa che più lo incantava era il fatto che in fin dei conti il writer è come se vivesse due vite parallele ben distinte tra loro, di giorno si è lo studente composto ed educato che studia e lavora, invece di notte presi gli spray in mano ci si trasforma in qualcun altro, un criminale, un vandalo, un artista illegale in incognito per gli occhi della società. Sentiva il writer come il suo alter ego, vivendo una doppia vita come nei suoi fumetti di supereroi, e celando la sua identità segreta.
Quella sera a Trastevere era sceso sul tardi, precedentemente era stato a cena da Claudia con i genitori, avevano visto un film insieme a loro e poi si erano sdraiati un po’ sul letto continuando a vedere la TV, poi fatto un po’ di sesso e considerata l’ora aveva deciso di scendere giù a Trastevere anche se a lei non andasse così tanto, infatti poi Claudia rimase a casa e lui uscì da solo. Passato a piedi per il S.Calisto e vedendo che in mezzo alla folla brulicante di visi, braccia gesticolanti e giacche colorate non ci fosse nessuno che colpisse la sua fantasia decise di dirigersi verso Ponte Sisto, passando per vicolo del Bologna e piazza Trilussa. Durante il tragitto si fermò in un bar per acquistare una Ceres e sorseggiandola mentre meditava ancora se andare o meno all’arrembaggio, fece un’incontro in mezzo a tutte quelle persone a piazza Trilussa che fugò ogni suo dubbio sul prossimo futuro.
Un suo compagno d’università, writer anch’egli, ed a cui si era legato molto quel periodo tanto da frequentarlo anche al di fuori degli studi ed esami, stava bevendo una birra in compagnia di qualche altra sua conoscenza, nell’immediato istante che lo avvistò, gli andò incontro e gli propose l’affare senza pensarci su due volte, l’altro allettato dall’idea di dipingere la metro, cosa che a lui non capitava spesso, diede subito conferma. In quel preciso istante i due erano molto contenti ed adrenalinici, pianificavano la loro idea di serata perché ancora non sapevano che per entrambi quella sarebbe diventata una notte molto lunga, una di quelle notti che difficilmente si dimenticano per il resto della propria vita. Aspettarono il momento e l’ora adatta per mettersi in moto e partirono in automobile alla volta del deposito più amato dal protagonista del nostro racconto. La notte, durante quel periodo, per dipingere non era il massimo della tranquillità, infatti le volte in cui gli era andata meglio erano state tutte durante le ore del giorno con il sole che splendeva alto nel cielo, ma la voglia era tanta quella sera tanto da fargli pensare che il solo tentativo valesse la pena. Percorsero viale Marconi ad andatura sostenuta tanto era il magnetismo che li spingeva verso il metallo, mentre guidava, dava delle dritte, consigli e nozioni all’altro su come si sarebbe dovuta svolgere la loro missione. Spiegava come sarebbero entrati, dove avrebbero lasciato l’auto, da dove sarebbero potute arrivare sorprese amare, dove andare a rifugiarsi nel caso di imprevisti, dove nascondersi nei momenti di stallo in cui fossero uscite delle guardie per le loro ronde notturne etc, etc… Il deposito per ogni writer che si rispetti, diventa familiare come un campo da gioco per uno sportivo, è il luogo dove si gioca l’unica partita che può darti come vittoria un vagone della metro che gira in città con il tuo nome sopra.
Mentre parlava erano arrivati di fronte un canile che distava non troppo dall’ingresso improvvisato da dove avrebbe voluto intrufolarsi con l’amico, parcheggiarono, scesero dalla vettura e si incamminarono lungo la via del Mare, arrivati all’imbocco fece mettere l’altro da una parte e lui decise di entrare in avanscoperta. Scavalcò la ringhiera e poi la rete che lo divideva dai treni fermi, immoti come animali addormentati sui binari e lungo le banchine silenziose, illuminate dai pali della luce sistemati a distanza identica l’uno dall’altro.
Arrivato ai treni si affacciò cautamente e in silenzio sulle banchine per vedere se ci fosse movimento, era tutto avvolto in una stasi che non lo faceva star bene. Era tutto troppo tranquillo. Lui avvertiva che c’era qualcosa che non andava nel verso giusto, c’era un non so che nell’aria che non lo faceva stare tranquillo, era tutto troppo semplice tanto da rendere la cosa surreale, gli sembrò di vivere un quadro di De Chirico. Le luci gialle ed immobili dei lampioni proiettavano lunghe ombre, che disegnavano forme geometriche tutto intorno, nessun rumore arrivava al suo orecchio, nemmeno il vento sembrava che tirasse in quel momento, era tutto identico all’istante precedente e a quello dopo, il tempo si era fermato. Ad un tratto un sasso sotto di lui si mosse e provocò un leggero rumore che spezzò l’incantesimo da cui era stato stregato, scosse per un poco la testa da sinistra a destra e decise trattenendo il respiro di entrare anche dentro al capannone per assicurarsi che non ci fossero sorprese dietro l’angolo. Il capannone era illuminato che sembrava fosse giorno al suo interno, passò dietro un treno, ma non riuscì a vedere o sentire anima viva. Accertatosi che ci fossero solo loro nelle vicinanze, tornò indietro a chiamare l’amico.



-        Ahò! Come è andata?
-        Sembra tutto tranquillo…
-        Allora da paura, no? Che dici se po’ fa?
-        Te dico a verità, è tutto troppo tranquillo. A me sta cosa non me piace pe niente, me puzza na cifra…
-        Dici?
-        Dico sì… Comunque vabbè, se semo arivati fino qua a sto punto famo de corsa, ‘na volata e se damo come ‘r vento, daje scavarca!
L’altro messo un piede dopo l’altro sulla ringhiera scavalcò e si trovò anch’egli dall’altra parte. Di nuovo superarono la rete e decisero di salire in banchina per farsi un “top to bottom colorato” a testa. Poggiati gli spray sull’asfalto delle banchine iniziarono a dare le traccie. I colori si mischiavano con gli strati di vernice vecchi di anni che stavano sui fianchi devastati dei bestioni di ferro, lui continuava a non essere assolutamente tranquillo, ed era lui quello esperto del posto, infatti durante tutto il tempo che stettero là sopra scese ben tre volte per andare ad accertarsi che tutto continuasse a scivolare per il verso giusto. Niente non c’era niente che riuscisse a vedere, eppure nel mentre in cui riprendevano a dipingere era sicuro di sentire, anche se nascosto dal soffio delle bombolette, che ci fossero dei sassi che sbattevano come se qualcuno stesse camminando e che si stesse avvicinando verso di loro. Dopo la terza volta che scese, avvertì l’altro – Sbrigate a da l’outline che questi sò arivati, lì sto a sentì, sbrighete! – Appena girò la testa finita la frase, si accorse che dietro al palo della luce, prima della scaletta che permetteva di salire in banchina, c’era un uomo vestito in blu che ci si nascondeva dietro. Lui lo vide, l’altro iniziò a tirargli sassi ad altezza viso, sulla banchina tra i due treni lo spazio in cui divincolarsi diventa molto ridotto e la possibilità di essere colpiti è veramente molto alta. I due scapparono, iniziarono a percorrere l’unico spazio che gli era concesso, ossia la lunghezza del treno. La banchina in quei casi diventa come un vicolo cieco, perché probabilmente correndo verso la fine del treno, uno ci si allontanava dal punto di ingresso, ma soprattutto si correva il rischio di correre in braccio alle altre guardie che aspettavano dal lato opposto del treno. Infatti come ci si poteva aspettare così fu, appena scese le scalette sbucò da dietro la locomotiva un altro uomo in divisa blu, il nostro amico lo spinse istintivamente battendogli la mani in pieno petto, quello cadde in terra sbattendo il sedere al suolo. La loro corsa continuò in direzione della rete, che una volta scavalcata insieme alla ringhiera in questo caso sbucava sui binari del lido, il treno metropolitano per ostia, però stavolta ben distanti dal loro punto d’ingresso. Dalle fratte al bordo della strada ferrata spuntò un’altra guardia con tanto di torcia in mano che li intimò di fermarsi immediatamente, di certo i due non ci pensarono neanche per un secondo e proseguirono la fuga in direzione della stazione di Magliana. Correndo verso la stazione si riavvicinavano all’uscita, ce l’avevano quasi fatta. Arrivarono sbattendo violentemente le braccia alla ringhiera, scavalcarono e uscirono con un balzo all’esterno. Era buio per strada e ripresa la corsa il nostro amico non vide una catena tirata da un palo all’altro di fronte a lui, e scattando la prese in pieno petto. Paradossalmente quell’incidente lo salvò, perché gli permise di non andare in braccio alla macchina dei metronotte parcheggiata nell’oscurità. In un millesimo di secondo le luci si accesero, un guardiano era di fuori con la pistola in mano – Fermi o sparo! – Non si fece mancare l’intimidazione, che però non ebbe buon esito, tutti e due voltarono la schiena e quella ringhiera appena scavalcata, veniva superata ancora con un balzò fulmineo di nuovo verso l’interno. Nel mentre le giacche blu degli altri inseguitori sul binario, si erano fatte molto più nitide e le voci molto più vicine tanto che si potevano benissimo ascoltarle. Un passo dopo l’altro l’inseguimento continuava ed iniziava a far barcollare il nostro amico avendo bevuto, fumato e poi assaporato qualche sostanza qua e là, però senza eccedere come sua consuetudine, la sua vista ad ogni modo iniziò ad appannarsi , finchè non vide completamente nero, buio pesto e cadde giù lungo la parte ripida e scoscesa al fianco del binario. Si immerse completamente all’interno di un rovo, che costeggiava un muro grezzo di mattoni ruvidi e grigi, con  l’ultimo spiraglio di forza e lucidità, riuscì a tirarsi ancora su e scavalcare quell’impervio ostacolo che lo divideva con qualche difficoltà da una proprietà privata a lui ancora ignota. Cadde malamente a terra, non riusciva più a respirare bene era entrato in un completo stato di iperventilazione, il cuore batteva all’impazzata, gli facevano malissimo i polmoni per tutta quell’aria gelida che aveva respirato a più non posso e così iniziò a rigettare i pochi resti della cena insieme ad un mare di succhi gastrici, acidi da morire, che gli facevano contorcere il viso piegato dagli sforzi e spasmi sofferti dallo stomaco. Nel mentre arrivò anche l’altro stremato come l’amico, si guardarono intorno, dal momento in cui erano entrati in quel luogo non erano quasi più riusciti a sentire niente che non fosse l’abbaiare impazzito di mille cani inferociti, erano cascati nella gabbia di uno dei cani del canile lì accanto e adesso dovevano trovare un qualche rifugio. Usciti dalla recinzione, iniziarono a scorgere sia i fasci gialli luminosi sparati dalle torce degli inseguitori, sia le finestre del guardiano che si accendevano una dopo l’altra, così presi dall’agitazione, riuscirono a trovare un gabbiotto basso e vuoto usato come cuccia per cani, entrarono immediatamente senza pensarci su due volte, accucciandosi e camminando quasi carponi. La pianta di quella piccola costruzione era fatta come una E maiuscola, quindi offriva come una corridoietto separato da un muretto interno che offriva una qualche possibilità di riparo dalla vista esterna. Si schiacciarono nello spazio in fondo, sperando che se avessero cercato non avessero cercato così in fondo. Erano la quattro di notte e loro erano in una situazione più che spiacevole. I passi e le voci si facevano più forti, la gabbia costeggiava con un lato la ferrovia quindi per loro era possibile ascoltare tutto quello che dicevano i loro aguzzini, mentre i cani con un po’ di tempo smisero d’abbaiare. La torcia del guardiano si fece vedere in giro, si affacciò lì accanto a loro, la luce spizzava gli angoli del muretto come un giocatore di Texas Hold’em fa con la carta appena tirata su, ma fortunatamente non successe nient’altro di allarmante per almeno quel momento. Nell’istante in cui si accertarono che chi li stava cercando non aveva capito che fine avessero fatto tirarono tutti e due un sospiro di sollievo. Anche il guardiano del canile finito il suo giro e assicuratosi che niente fosse fuori posto si convinse che poteva anche tornarsene a dormire un pochino e così fece. I lampeggianti delle sirene delle macchine della vigilanza sfrecciavano sulla via del Mare ininterrottamente, i due vandali gli erano riusciti a scappare e questa cosa non gli andava giù, per giunta dovevano essere ancora convinti che i fuggiaschi non dovessero essere poi così lontano tanto che non mollarono la presa per parecchio tempo ancora. Ripreso fiato i due universitari si consultarono “a tavolino” per così dire e decisero che l’unico momento buono per scappare doveva essere intorno alle sei del mattino, visto che il servizio di trasporto cominciava di nuovo e il rumore del treno poteva essere l’unica cosa che coprisse i loro passi sul brecciolino. I loro passi infatti appena usciti dal gabbiotto e arrivati sul selciato davano inizio ad un coro d’ululati e latrati che i cani di guardia non aspettavano a far mancare ad ogni tentativo di fuga. Passarono due ore rannicchiati al freddo e con un’umidità che faceva battere i denti. Fatte le sei, il sole cominciava a rischiarare l’orizzonte tutto intorno al deposito, e loro preso il coraggio a due mani attaccarono a correre verso il cancellone del canile per scavalcarlo il più velocemente possibile. Balzati dall’ altro lato della barriera architettonica, si apprestarono ad attraversare la via del Mare saltando il Guard Rail con un balzo. Si intrufolarono nel canneto dall’altro lato della strada per togliersi dalla vista delle automobili di passaggio, anche perché con la luce individuarli era diventato molto più semplice. Passate le canne e i rovi, dall’altra parte si stendeva in tutta la sua lunghezza la corsia ciclabile. Pensavano che ormai raggiunta quella avessero quasi toccato con un dito la libertà, quando la loro soddisfazione fu brutalmente distrutta dall’avvicinarsi repentino degli abbaglianti di una macchina che correva sfrecciando lungo il tragitto ciclabile. Si gettarono senza starci a pensare tra il canneto alla loro destra, quella che stava passando di corsa era una delle vetture che li stava ancora cercando, non potevano crederci, non era possibile! Questa situazione gli fece abbandonare la speranza di tornare alla macchina, era completamente esposta al controllo costante del Security Service, così decisero di dirigersi a piedi verso viale Europa e da lì chiamare un taxi. Dopo un lungo camminare, approdarono alla più vicina cabina telefonica, i loro documenti, telefoni, soldi e chiavi erano stati lasciati custoditi in macchina e di conseguenza adesso per loro erano irraggiungibili. Chiamarono il taxi con l’intenzione di passare dalla macchina e vedere la situazione, nel caso non fosse stata delle più gradevoli avrebbero optato per dirigersi verso casa di lui, perché la più vicina e dove avrebbe svegliato il fratello per farsi aprire e prestare i soldi per il tassista. Procedevano lungo la via del Mare quando arrivati in prossimità dell’auto si accorsero che questa era completamente circondata da divise e cappelli, niente da fare quindi bisognava dirigersi verso casa. Il fratello di lui all’ascolto del racconto e finito di pagare il tassista non potè che farsi sfuggire un’espressione di sconforto e tristezza per il fratello maggiore. L’altro silenziosamente abbassò lo sguardo e proseguì verso la sua stanza con l’amico per prendersi un po’ di meritato riposo. Fortunatamente i genitori erano partiti in quell’occasione e così riuscì ad evitarsi almeno quelli loro di sguardi. A pranzo una volta svegliati, con l’amico al seguito presero la macchina della madre per andare a recuperare l’altra lasciata incustodita da tutta la notte, ma non si aspettavano che anche questa semplice azione si sarebbe rivelata più complicata del normale.
Arrivati di nuovo alla macchina parcheggiata, la scena che gli si presentava davanti gli occhi era la stessa della mattinata solamente amplificata, se prima là intorno c’erano tre guardie adesso le guardie erano diventate sette e tra l’altro discutevano anche molto animatamente tanto che i due scoraggiati decisero di ritentare più tardi. Verso le quattro del pomeriggio la situazione sembrava essersi calmata finalmente, ma quella che gli si mostrava sotto gli occhi attenti era solamente un’illusione. Accostata la macchina ancora accesa alla vettura parcheggiata e di corsa aperta la portiera, il padrone si diresse verso la sua auto, ma lo spettacolo che gli si presentava davanti gli occhi increduli non era dei più soddisfacenti, la vettura era stata completamente danneggiata, le luci con gli stop erano scoppiati a suon di calci, tutte le fiancate con cofano e portellone rigate pesantemente con un mazzo di chiavi, la serratura scardinata e aperta la portiera dal cruscotto erano stati prelevati novecento euro che il nostro amico aveva furbamente pensato di lasciare lì per non portarseli dietro, i documenti con i nomi e indirizzi erano stai rovistati e come se non bastasse avevano trovato l’unico spray superstite alla nottata. Mentre stava smaddonnando ad alta voce e sbraitava contro le forze dell’ordine venne accostato da uno dei metronotte che come per magia sbucò dal nulla, nascosto in un cespuglio e lasciato là da qualche parte in attesa che il padrone della Golf fosse tornato indietro. Quest’ultimo avvicinatosi con fare furtivo una volta raggiunto il ragazzo che imprecava commentò – Certo che je avete fatto rode r culo forte sta notte, eh? – ed aggiunse – non so mica che avete combinato, ma ve consijo de pijavve la robba vostra alla svelta e de filà, anche perché se me dovessero vedemme qui co voi me fate passà n guaio pure a me e ve lo dico da amico… Questi non ve vojono denuncià o che, questi ve pistano proprio, quindi sbrigative, dateve e pure de corsa!- Il ragazzo, incredulo dell’accaduto, senza emettere verbo acciuffò tutta la roba che rimaneva da prendere, scattò di nuovo sul sedile in macchina con l’altro e se la diedero a tutta birra.
-        Sti fiji de na mignotta! Mortacci loro e de sti pezzi demmerda! –
-        Porca puttana, n sai quanto me dispiace… -
-        Dimmelo a me, mò che je dico a mi padre, che palle! –
-        Poi mò come te la vai a riprenne? –
-        Cor caroattrezzi pefforza, so pure artri sordi… Lascia perde non vojo sta a parlà de soldi… -
Tornato ancora una volta dal fratello minore, escogitarono un racconto tale che potesse reggere nel qual caso avesse dovuto anche giustificarsi con Carabinieri o Polizia, perché da come si erano messe le cose, tutto lasciava presagire che ci sarebbero stati ancora non pochi ostacoli per portare in salvo la macchina verso casa, o almeno quel che ne restava. Chiamato il carroattrezzi e fattosi venire a prendere, si diresse verso il parcheggio dando di svolta in svolta le indicazioni per raggiungere la vettura disastrata. Raggiunta la via del Mare in un battibaleno furono prima accostati e poi seguiti da una volante del Security Service che non si dimenticò di chiamare anche i Carabinieri. Sceso dal carro, quindi iniziò immediatamente un fantastico racconto \ episodio di lui ubriaco diretto ad Ostia per andare in un locale a ballare col fratello, che però preoccupato per le sue condizioni lo costrinse ad abbandonare la macchina per sicurezza sua e stradale e a proseguire il viaggio con lui nella sua vettura. Nessuno crebbe a quella storia, ma in ogni caso nessuno poteva dire con certezza che fosse stato lui uno dei due fuggiaschi nella notte. Contestò anche il fatto che il metronotte sapesse cosa ci fosse all’interno della sua Golf, quando in realtà ne sarebbe dovuto essere all’oscuro. Chi aveva danneggiato l’auto in quel modo? Quale poteva essere la ragione per la quale un’automobile venisse distrutta in quella maniera, lasciata semplicemente parcheggiata in un luogo per una notte? Dopo una lunga discussione, venne fatto andar via e gli fu permesso di riportare indietro il rottame. I genitori tornarono la sera stessa più tardi e furono costretti ancora una volta a dover sottostare ad una lunga serie di scuse e giustificazioni. Il rischio per la salute, la fedina penale, i soldi, la macchina, lo spavento, la costante ansia in cui li faceva vivere, tutti i tasti vennero toccati come sempre. Ancora una volta era tornato a casa sano e salvo, ma la macchina non poteva dire lo stesso, ancora una volta i danni furono tanti e ancora una volta le ripercussioni si sarebbero fatte sentire a lungo raggio.


5 commenti:

  1. te prende Troppo sto racconto...sforna altri capitoli che questi me li so riletti venti volte!continua così!

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    1. So d'accordo. E troppo bello sto racconto.Quando o cominci a legge non smetti.Se continuasse sarei un Sacco contento.

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